AnalEasy del testò – l’aperitivo del venerdì

Le categorie M/F ti fanno venire la cervicale?

Dicono che sei una tipa tosta, ma non ami la rigidità?

Non sei un duro e sei stufo di chi ti dice che dovresti esserlo?

Non riesci più a confrontarti con il reale o è il reale che non vuole più confrontarsi con te?

Lo sforzo di fare un uso consapevole del testosterone ti sfinisce?

Sei stufo/a di raccogliere saponette senza che accada nulla?

allora sei pront* per

analeasy del testò

l’aperitivo deside(li)rante a cura di Antagonismogay e Laboratorio Smaschieramenti

video, libri, sogni, chiacchiere

Atlantide @ Porta Santo Stefano, Bologna

ogni venerdì, dalle 19.30 alle 23

scarica il volantino in grafica

La farcitura di analeasy del testò

9 aprile

Ore 21 La storia proibita degli Ottanta. Storia del movimento lgbt in Italia

Presentazione del documentario di Daniele Ongaro,”L’amore al tempo dell’AIDS”, con Nerina Milletti e Cristian Loiacono

16 aprile

Rigeneriamo culture, territori e immaginari: per una Mayday contro la violenza di genere

Presentazione dell’inchiesta curata da Laboratorio Smaschieramenti, Antagonismogay, Sexyshock, Frangette estreme e Comunicattive per la Mayday 2010

23 aprile

Ore 21 Il tranquillo calduccio della paura messa in (o)scena di un testo di Daniele Barbieri

30 aprile

Ore 21 Maschile: genere ecoinsostenibile

Presentazione del libro “Essere maschi. Tra potere e libertà” di Stefano Ciccone (Maschileplurale)

Con l’autore e Matteo Cavalleri (Millepiani)

7 maggio

Ore 21 Intersex pride 2.0

Presentazione del primo sportello di accoglienza per le persone intersessuali in italia, a cura del Centro lgbtq Ireos di Firenze

Con Michela Balocchi e Lollette (attivista intersex)

14 maggio

Ore 21 Rieduchescional gender

Presentazione di progetti cittadini sulla didattica e l’educazione di genere

con Progetto Alice, Fiocco Bianco, Cassero, Etichette Stupide.

scarica il volantino in grafica

www.antagonismogay.org http://smaschieramenti.noblogs.org infosmaschieramenti[chiocciolina]inventati[punto]org

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Arrestata una femminista a Perugia

Il Laboratorio Smaschieramenti è solidale con le/gli arrestati e con i loro compagni e invita tutte/i a diffondere la notizia e a partecipare alle numerose inziative in corso a Perugia.

Pubblichiamo il comunicato del Collettivo Femminista Sommosse di Perugia e il comunicato di CommonsLab, CSOA Ex Mattatoio e Collettivo Femminista Sommosse.

In fondo i link su cui è possibile trovare aggiornamenti.

 

12/4/10 

Care compagne tutte vogliamo denunciare un fatto gravissimo che è avvenuto
nella nostra città e che ha coinvolto tra gli altri una nostra compagna
del collettivo femminista sommosse e del gruppo del wendo.
Sabato sera era con altri compagni nel centro storico di Perugia a prendere
un aperitivo prima di partire per un concerto verso Fabriano.
Il gruppo di compagn* stava conversando quamdo si sono avvicinati 7 figuri,
che senza dare nessun segno di identificazione hanno chiesto loro i
documenti. Mikela ha rifiutato di darli, i "poliziotti" erano in borghese e
non mostravano alcun distintivo. Mikela è stata aggredita verbalmente e
fisicamente, è stata spintonata. Un compagno si è frapposto tra lei e un
poliziotto ed è stato immediatamente ammanettato: nel giro di pochi
minuti è nato un parapiglia in cui diversi compagni sono stati picchiati e
tra questi due compagni, Riccardo e Lorenzo, infilati dentro le volanti
prontamente sopraggiunte ed insieme a loro Mikela.
Chi di voi ha conosciuto Mikela, sa che Mikela è un piccola grande
compagna, straordinaria ed appassionata, sempre in prima fila, pronta a
mettersi in gioco e a lavorare con e per gli altri.
Abbiamo costruito insieme il nostro collettivo femminista ed insieme
lavorato sulle battaglie per il reddito, contra la violenza maschile e
contro il securitarismo.
In una città, Perugia, sempre più piena di telecamere e in cui i
controlli o meglio i "rastrellamenti" sono diventati all’ordine del giorno.
Una città che si è trasformata in un carcere all’aperto.
Oggi ci sarà il processo in direttissima, oltraggio,e restistenza
aggravata son i capi di imputazione. Mikela sta facendo la sua tesi sulla
città e la sicurezza da un punto di vista di genere. Abbiamo fatto insieme
una video-ricerca: "Safety or security? Quale genere di sicurezza per la
mia citta?" che proietteremo presto ovunque: abbiamo provato a decostruire
il concetto ideologico di sicurezza che per le donne significa stare tutte
a casa magari a farsi picchiare dal marito.
Mikela ha detto no. Ed insieme a lei, arrestata senza alcun motivo,o per
non essere rimasta a casa nella prigione sua prigione domestica, Noi
diciamo no. Non resteremo a casa e non ci faremo intimorire: dall’avanzata
delle destre, dalla gestione securitaria della crisi economica, dal
razzismo, dal sessismo.
Noi non abbiamo paura!

Sommosse Perugia

 

LA CITTA’ E’ DI CHI LA VIVE

12/4/10 

Alle ore 21: 00 di sabato sera alcuni ragazzi si trovavano in Piazza IV Novembre a Perugia a bere una birra insieme prima di cena.

Un gruppo di persone si è avvicinato chiedendo loro i documenti, senza identificarsi o mostrare un distintivo. Uno dei ragazzi ha chiesto quale fosse il motivo del riconoscimento e in una frazione di secondo è stato ammanettato. Chiunque si avvicinasse veniva malmenato e allontanato violentemente.

Sul posto sono immediatamente arrivate due volanti, che ne hanno portati via tre. Successivamente sono stati arrestati.

Vogliamo denunciare questo grave episodio che riteniamo di sopraffazione e di violenza nel clima sempre più irrespirabile di questa città, in cui sembra vigere una sorta di coprifuoco dove i vigilanti hanno un potere di discrezionalità pressochè assoluta.

Sabato è successo a tre persone le cui reti di amicizia e di relazioni hanno provocato una risposta immediata, ma sappiamo anche che questo tipo di comportamento da parte delle forze di polizia è all’ordine del giorno, tollerato, quando non deliberatamente richiesto, dal governo della città in nome della sicurezza.

Quale sicurezza?

Decine di posti di blocco ogni sera sulle strade del centro storico, poliziotti in borghese, vigilanti e pattuglie a presidiare le piazze e le vie principali, ordinanze comunali che, limitando l’orario di apertura dei locali del centro, credono di rendere la città sicura mandando tutti a letto presto.

Non è la città deserta dopo l’una di notte, a renderci sicuri. Non è la città svuotata di spazi di socialità e di cultura a renderci sicuri. Non è la città vetrina per turisti a renderci sicuri.

L’unico effetto di questa politica per la ‘sicurezza’ è criminalizzare i comportamenti e i differenti stili di vita!

A Perugia sembrano avere legittimità solamente massoni, costruttori, faccendieri e narcotrafficanti. Loro si che si sentono sicuri!!!!

Perugia puzza di deserto. Un deserto che mira ad entrare nelle nostre esistenze per saccheggiarle e svuotarle.

La sicurezza, invece viene dalla tranquillità di poter vivere la propria città a seconda dei bisogni e desideri di ciascuno. Tutto questo non può prescindere da un’agibilità sociale che naturalmente avviene in uno spazio cittadino che è e deve rimanere comune!

Al contrario in questi ultimi anni gli spazi cittadini, dai parchi alle piazze del centro e non solo, sono stati sottratti alle persone, svenduti agli interessi privati e di conseguenza posti sotto controllo.

In quanto persone che vivono la città rivendichiamo il diritto a riprenderci gli spazi comuni per poter vivere liberamente le nostre vite!!!!

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Smaschieramenti aderisce a No Vat 2010

 

ROMA – sabato 13 febbraio 2010

Manifestazione Nazionale NO VAT

Autodeterminazione laicità antifascismo antirazzismo liberazione

Il 13 Febbraio 2010 per il quinto anno scendiamo ancora in piazza contro il Vaticano per denunciarne l’invadenza nella politica italiana: è infatti uno degli attori che agiscono nelle complesse dinamiche di potere sottese a un sistema autoritario e repressivo.

L’11 febbraio 1929 i Patti Lateranensi sancivano la saldatura tra Vaticano e regime fascista, oggi le destre agitano il crocefisso per legittimare un ordine morale in linea con l’integralismo delle gerarchie vaticane, lo strumentalizzano per costruire un’identità nazionale razzista e una declinazione della cittadinanza eterosessista e familista.

Da una parte le destre criminalizzano immigrate ed immigrati, istigano a una vera “caccia all’uomo”, li/le rappresentano come la concorrenza nell’accesso alle risorse pubbliche mentre nessuno affronta il problema di un welfare smantellato e comunque disegnato su un modello sociale che non c’è più. D’altra parte la chiesa cattolica  legittima esclusivamente questo modello di società, basato sulla famiglia eterosessuale  tradizionale, sulla divisione dei ruoli sessuali, dove un genere è subordinato all’altro e lesbiche, gay e trans non hanno alcun diritto di cittadinanza.

Su un altro fronte, destra moderata e sinistra riformista attuano il tentativo di procedere ad un’assimilazione selettiva dei soggetti minoritari sulla base della disponibilità espressa a offrirsi docilmente a legittimare discorsi razzisti, eterosessisti e repressivi. E’ prevista l’inclusione solo di quelle soggettività che non mettono in discussione il potere: c’è un piccolo posto anche per gay, lesbiche e trans e per altre figure della diversità, purché confermino l’ordine razzista, sessista e repressivo.

In questo quadro, nel movimento lgbtq, abbiamo assistito alla comparsa di “nuovi” soggetti che ne usano le parole d’ordine per produrre un ribaltamento della realtà: a protezione delle soggettività supposte deboli pongono i loro carnefici. Chi legittima questi “nuovi” soggetti, contribuisce a produrre un ulteriore spostamento a destra, a normalizzare la presenza delle destre radicali nel dibattito pubblico.

Fuori da queste lotte interne al potere,  dobbiamo constatare la diffusa e asfissiante presenza di un’etica cattolica, un modello di politica che propone come uniche alternative di “rinnovamento” il moralismo e il giustizialismo. Sappiamo che se oggi  il Vaticano appare meno interventista è solo perché non ne ha bisogno: già nel nostro paese possiede il monopolio dell’”etica” che abbraccia indistintamente governo e opposizione parlamentare che fanno a gara – come sempre – ad inginocchiarsi all’altare del giustizialismo e del buonismo ipocrita.

Respingiamo il tentativo di  espropriare anche i movimenti di lesbiche, gay, trans e femministe, di categorie fondamentali quali l’antifascismo, altrimenti l’ambiguità politica finirebbe per rendere le nostre soggettività complici di quest’ordine morale e politico che concede una legittimazione vittimizzante e minoritaria in cambio dell’assuefazione alla repressione.

Contrastiamo questo potere che, dove non addomestica, reprime e, attraverso l’ordine morale vaticano, assume dispositivi di disciplinamento e controllo sociale che negano qualunque tipo di autodeterminazione: l’autodeterminazione sociale ed economica dei e delle migranti, l’autodeterminazione dei corpi e degli stili di vita di donne, gay, lesbiche e trans,  ogni percorso di autorganizzazione, di dissenso e di conflitto.

Denunciamo che quando il  processo di addomesticamento non si compie viene utilizzato il carcere, il CIE (centri di identificazione ed espulsione), la repressione, la paura, la noia, la solitudine, l’intimidazione e la criminalizzazione per neutralizzare gli elementi di dissenso non previsti e non gestibili: migranti, movimenti, studenti, lavoratori e lavoratrici, disoccupati/e.

Riaffermiamo che antirazzismo, antifascismo, antisessismo sono  lotte, necessarie l’una  all’altra, da condurre anche contro l’uso strumentale delle libertà di donne e lgbt per rafforzare e legittimare un modello razzista.

Portiamo in piazza i nostri percorsi di autodeterminazione nell’acutizzarsi della crisi economica e dello smantellamento dello stato sociale – in particolare della scuola e dell’università –  che tanto spazio lascia alle imprese private e  confessionali.

Riaffermiamo le diversità e le differenze sociali, sessuali, culturali, contro l’identità nazionale razzista e eterosessista che ci vogliono imporre e contro l’ordine morale vaticano.

Portiamo in piazza i nostri percorsi di liberazione per ribadire la nostra volontà di agire nello spazio pubblico per produrre trasformazione sociale e culturale.

Per adesioni: adesioni(at)facciamobreccia.org – www.facciamobreccia.org

 

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da King kong theorie, di Virginie Despentes

"Questa immagine della prostituta, che si ama tanto esibire, privata di tutti i suoi diritti, della sua autonomia … ha molteplici funzioni. In particolare: far vedere agli uomini che hanno volgia di andare a puttane fino a che punto devono abbassarsi per farlo. Anche loro vengono ricondotti nel matrimonio, direzione cellula familiare: tutti a casa. E’ anche un modo di ricordare loro che la loro sessualità è necessariamente mostruosa, fa delle vittime, distrugge delle vite. Infatti la sessualità maschile deve restare criminalizzata, asociale e mincciosa. … Quando si impedisce alle puttane di lavorare in condizioni decenti, è evidentemente con le donne che ce la si prende, ma si controlla anche la sessualità degli uomini. … La questione non è solo di nascondere agli occhi di quanti abitano sul lungofiume in centro, ai più ricchi di noi, questa popolazione povera. Passando attraverso il corpo della donna, strumento decisamente essenziale all’elaborazione politica della mistica virile, il governo decide di deportare fuori dalle citta il desiderio bruto degli uomini. … Le donne sono lacerate fra queste due opzioni incompatibili (madre o puttana). E gli uomini sono bloccati di fronte a quest’altra dicotomia: quo che li eccita deve restare un problema. Soprattutto, nessuna riconciliazione, è un imperativo. Perchè gli uomini hanno questo di particolare, che tendono a disprezzare ciò che desiderano, così come a disprezzare se stessi per la manifestazione fisica di questo desiderio. Fondamentalmente in disaccordo con se stessi, si eccitano per ciò di cui hanno vergogna.

Una frase mi ha segnata, ripetuta varie volte dai clienti, uomini diversi, dopo sedute diverse fra loro. Mi dicevano, con un tono dolce e un po’ triste, comunque rassegnato: "E’ a causa dei maschi come me che delle femmine come te fanno quello che fanno". Era un modo per ricollocarmi al mio posto di ragazza perduta, dal momento che non davo abbastanza l’impressione di soffrire per quello che facevo. Era anche una frase che esprimeva quanto confrontarsi con il proprio piacere sia doloroso per i maschi: quello che mi piace fare con te è necessariamente portatore di sventura. Faccia a faccia con il loro senso di colpa. Necessità di vergognarsi del proprio piacere, anche quando trovasse soddisfazione in un contesto che non fa del male e che soddisfa in egual modo entrambe le parti. Il desiderio degli uomini deve ferire le donne, macchiarle. E, di conseguenza, colpevolizzare gli uomini. Non è una fatalità, ancora una volta, ma una costruzione politica. Gli uomini attualmente non danno segnali di volersi liberare da questo genere di catene. Anzi.

…. 

Nei film, l’attrice hard ha una sessualità maschile. Si comporta esattamente come un omossessuale in una back room. Viene messa in scena nei film come una che vuole del sesso, non importa con chi, che ne vuole attraverso tutti i buchi, e ne gode ogni volta. Se si guarda un film a luci rosse eterosessuale, ci si rende conto ch è sempre il corpo femminile a essere valorizzato, mostrato, sul quale si punta per fare effetto. … Lo spettatore si identifica soprattutto con lei, più che con il protagonista maschile. Così come ci si identifica spontaneamente con chi viene messo in valore, in qualsiasi tipo di film. Il porno è anche il modo in cui gli uomini immaginano ciò che farebbero se fossero delle donne, come si applicherebbero per soddisfare altri uomini, per essere delle gran zoccole, delle mangiatrici di cazzi.

… 

Piace parlare delle donne, agli uomini. Così possono evitare di parlare di sè. Come si spiega che in trent’anni nessun uomo abbia prodotto il più piccolo testo innovativo rispetto alla mascolinità? Loro che sono così chiacchieroni e così competenti quando si tratta di concionare sulle donne, perchè questo silenzio su ciò che li riguarda? Infatti sappiamo che più parlano, meno dicono. Dell’essenziale, di quello che hanno veramente in testa. Vogliono che parliamo di loro, a nostra volta? per esempio, volgiono sentirsi dire a cosa assomigliano, visti dall’esterno, i loro stupri collettivi? Si direbbe che vogliono vedersi scopare, guardarsi reciprocamente il cazzo, essere insieme mentre hanno l’erezione, si direbbe che ahnno voglia di metterselo nel culo. Si direbbe che hanno paura di confessare a se stessi che ciò di cui hanno veramente voglia, è di scopare gli uni con gli altri. Agli uomini piacciono gli uomini. Ci spiegano ogni momento quanto amano le donne ma sappiamo tutte che ci dicono delle frottole. Si piacciono, tra di loro. Si scopano attraverso le donne, molti di loro pensano già agli amici quando sono dentro a una fica. Si guardano al cinema, si affibiano dei bei ruoli, si trovano potenti, fanno gli spacconi, non smettono di compiacersi di essere così belli, forti e coraggiosi. Scrivono gli uni per gli altri, si congratulano, si sostengono. Hanno ragione. ma a forza di sentirli lamentarsi che le donne non scopano abbastanza, che non amano il sesso come dovrebbero, non capiscono mai niente, non si può fare a meno di chiedersi: cosa aspettano per incularsi? Su, coraggio. Se vi può rendere più sorridenti, vuol dire che va bene. ma, tra le altre cose che sono state loro inculcate, c’è la paura di essere una checca, l’obbligo di essere attratti dalle donne. Allora, rigano dritto. Sbuffano, ma obbediscono. Di sfuggita, prendono a sberle una ragazza o due, furiosi di doverci avere a che fare.

… 

Lo stupro, d’accordo, è triste, ma bisogna andarci piano con i vagiti, signore. Troppo poco dignitosi. … Nascondete le vostre ferite, signore. Potrebbero dar fastidio al torturatore. Essere una vittima dignitosa. Cioè che sa tacere

Vuoi che tutti ti vedano come una donna cui è successo questo? E come puoi esserne uscita viva, senza essere una zoccola patentata? Una donna che avesse tenuto alla propria dignità avrebbe preferito farsi ammazzare. La mia sopravvivenza, in quanto tale, è una prova che parla contro di me. Il fatto di essere più terrorizzata all’idea di essere ammazzata che di essere traumatizzata dai colpi di reni di tre balordi, appariva come una cosa mostruosa"

Virginie Despentes, King kong girl, Einaudi, 2007 (King kong theorie, Edition Grasset & Fasquelle, 2006)

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Cinture di castità, di Diane di Prima

"Sì, era bello essere la donna di tre uomini, ciascuno col suo trip, ciascuno voleva una cosa diversa, in modo che il mondo si allargava, e interagiva, com una foto impresionata tre volte, creando uno spazio infinito. Da allora ho scoperto che di solito è bene essere la donna di molti uomini, o essere una delle molte donne sulla scena di un uomo, o essere una delle molte donne in una casa con molti uomini, con una situazione complessiva mutevole e ambigua. Quello che non è bello, quello che è claustrofobico e mortale, è il solito rapporto a due. Va bene per un fine settimana, o un mese in montagna, non va bene per il lungo periodo, non va bene una volta che entrambi vi siete detti che così deve essere tutta la vostra vita. Allora inziano innumerevoli pretese, e inganni per evitare la noia, e la lenta inesorabile chiusura dell’infinito orizzonte divino, come i muri incandescenti che si stringono intorno al protagonista nel Pozzo e il pendolo di Poe, muri che si chiudono implacabili a soffocare completamente la vita nel vostro modno.
Nel Medioevo c’erano le cinture di castità ma quelle, almeno, si potevano affrontare, con un seghetto se non altro. Ai tempi dei nostri genitori c’era il matrimonio, e a volte c’è anche oggi, e anche quello è abbastanza brutto, ma è una formula legale, e si può risolvere con un altro po’ della stessa roba, di altre carte. E’ spiacevole, ma è solo un aspetto del mostro. Il vero orrore, l’incubo in cui la maggior parte di noi trascorre la vita adulta, è l’insidiosa e ben radicata fede nel mondo a due. Il mondo di "questo è mio marito". Vivi con un uomo, e cominci ad avere delle pretese nei suoi confronti. Vivi con cinque, e hai le stesse pretese, ma allargate, ambigue, indefinite. Ciò che non è soddisfatto da uno, verrà facilmente soddisfatto dall’altro, nessuno si sentirà frustrato dai sensi di colpa e di inadeguatezza, e nessuno verrà messo con le spalle al muro da richieste che non può esaudire…"
 
(Diane di Prima, Memorie di una beatnick, 1969)

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Da Scontro di civiltà per un ascensore a piazza vittorio, di Amara Lakhous

Decimo ululato (L’incubo di Amedeo)

da Amara Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a piazza vittorio, ed. E/O, 2006 

 

Mi ha svegliato poco fa l’ospite delle tenebre, lo stesso incubo che viene a trovarmi ogni tanto. Non torno a dormire. Che cos’è l’incubo? L’incubo è un cane feroce. Mio nonno era un contadino, non ha mai abbandonato il suo villaggio nelle montagne di Djurdjura e mi diceva sempre: “quando un cane ti annusa non scappare, rimani fermo e fissalo negli occhi. Vedrai, farà un passo indietro. Invece se scappi ti correrà dietro e ti morderà.” Io non fuggo di fronte agli incubi. Li guardo in faccia ricordando tutti i dettagli. Li sfido senza paura, perché il cesso è la tomba dell’incubo. Eccolo l’incubo in versione integrale:

Vedo… vedo me stesso uscire dal buco della vita coperto di sangue. I cuori dei parenti battono molto forte. Avanti, mamma! Mia madre lotta contro i dolori del parto e alza la testa con difficoltà. Prima di asciugarmi le lacrime e di stampare i primi baci sulle mie guance rosse, mia madre dà un’occhiata con angoscia e ansia al di sotto dell’ombelico. Adesso tira un lungo sospiro. Dio e santi hanno accolto la sua implorazione.

– Dhakar! Dhakar! Dhakar!(1)

– Yuuuuuyuuuuuuyuuuuuuuuuuu…

Così accolgo la vita con le lacrime e lei, la vita, mi accoglie con gli zagharid (2). Non importa se il neonato dhakar sia bello o brutto. Non importa se il neonato sia sano o malato. Non importa se il nascituro… non importa… non importa. Ciò che importa è che è un dhakar. Anzi, ciò che conta alla fine non sono io. Quello che conta veramente è il mio dhakar.

Vedo… Vedo il mio dhakar o il dhakar della mia famiglia crescere fino al momento della circoncisione. Vedrò il mio sangue scorrere e maledirò gli zagharid che soffocherano il mio singhiozzo. Ricorderò gli zagharid della nascita un’altra volta e vedrò il mio sangue cadere a gocce per terra. Perchè hanno sgozzato il dhakar? La chiamano la festa della purificazione! A loro il canto, il ballo e la gioia e a me il dolore, le lacrime e la sofferenza: quello che mi fa male è di non essere stato consultato. Ma a chi appartiene il dhakar, a me o a loro? Vedrò il dhakar crescere e militare in clandestinità. E in fretta la piccola testa rossa entrerà nella vita pubblica con il matrimonio. Così il mio dhakar si sposa e io mi trovo nei guai. La prima notte di matrimonio il mio odio per chi mi ha ingannato aumenterà.

Vedo… vedo me stesso di fronte al muro della verginità. La muraglia cinese! Le montagne dell’Himalaya! Quanto sono triste per gli anni perduti. Mi hanno detto che l’adulterio viene punito con cento frustate. Mi hanno combattuto con tutte le armi: Dio, i profeti, i santi, la religione, la consuetudine, la buona condotta, il giudizio della gente, l’Aids. Così saliamo sul ring come due pugili al loro primo match. Lei ha paura e anch’io. I consigli, le raccomandazioni rimarranno fuori dalla nostra camera da letto. Però lei ha più paura di me. Mi faccio coraggio con un bicchiere o due e con qualche sigaretta. Cosa le dico? Non le dirò nulla. Le mie parole la incoraggeranno e mi indeboliranno. Vittima o carnefice! No c’è altra scelta. Non alza gli occhi. Ha paura più di me. La bacerò? La carezzerò? Cos’è questo tira e molla? Tutti aspettano dietro la porta. Le bocche delle donne sono piene di zagharid. Maledetti zagharid! Deve penetrare il muro. Questo è fuori discussione. Potrebbe tradirmi all’ultimo minuto, e pagherei un prezzo troppo alto. Io non mi fido di lui. Non mi fido di nessuno. Potrei cadere nella trappola della magia delle donne cattive che rubano la virilità ai maschi. E sarei colpito dalla maledizione di marbout (3). Ma è il signor dhakar a salvarmi da questa notte folclorica. Dai, avanti! Non si sentiranno zagharid se non scorrerà il liquido sacro. Il dhakar è il coltello che sgozza la verginità. Avanti! Sangue! Sangue! Sangue! Sangue! Sangue! Sangue!

– Yuuuuuuyuuuuuuyuuuuuuuu….

Vedo… vedo me stesso uscire dalla camera coperto di sangue. La mia famiglia, quella della sposa e gli ospiti mi assaltano come vespe che si accaniscono su una carogna. Dopo un po’ sento dei denti dentro la mia carne, vedo il mio sangue per terra, apro gli occhi con difficoltà e vedo tanti lupo che mi circondano da tutte le parti…

 

 

  1. In arabo significa sia maschio che pene

  2. Acuto ululato tipicamente femminile che sottolinea particolari momenti di gioia.

  3. Stregoneria femminile che causa l’impotenza sessuale.

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Potere e desiderio maschile nel cinema. Articolo per Liberazione

 

di Christian Battiferro, Viviana Indino, Marco Puggioni

Liberazione, 29 agosto 2008

Nel cinema il tema del desiderio maschile e i legami contradditori alle logiche di potere sono presenti in varie forme. Attingendo dai desideri e dai bisogni della società, il cinema può indurre, manipolare o nutrire a sua volta gli stessi desideri delle masse; semplificato in categorie si distingue in generi per facilitare le scelte degli spettatori. Conscio del proprio potere, l’uomo attraverso il cinema, ha imposto modelli omologanti, dettato regole e dispositivi normalizzanti. Ne è esempio il Codice Hays, attuato ad Hollywood dal’34 al’67 sostenuto dai poteri cattolici, impose e veicolò modi e standard morali; altro esempio è come il porno acquista sempre più valore nel mercato: dal’69, in USA, il porno si può vedere a casa protetto dal diritto alla privacy, mentre in Danimarca veniva liberalizzato. Il cinema allarga, stringe, e ricrea i confini del desiderio, non solo nei generi cinematografici, ma anche negli spettatori in genere. All’inizio degli anni ’80, quando l’ombra dell’AIDS incombeva sulla liberazione sessuale della società, alcuni film significativi narrano di ambigue pulsioni maschili. Negli States esce, ostacolato dal movimento gay, Cruising (1980) di W. Friedkin, che in realtà indaga la passione omofobica che deriva dall’autocensura: Al Pacino è un poliziotto che per scovare un serial killer s’infiltra nel mondo gay sadomaso, dove la sua sicura identità verrà man mano infranta tra l’emergere d’inconsce pulsioni e resistenze, finché allo specchio si riconoscerà altro. Nella scena della violenza contro un gay, reo di essere il compagno della persona desiderata, come in quella dell’abuso di due trans da parte di una pattuglia, la contraddizione del desiderio negato emerge violenta perché contraria all’immagine normale che si ha di sé. Di tutt’altro genere Ai cessi in tassì (1981) di e con Frank Ripploh, un gay che vive liberamente il suo desiderio, mentre il suo compagno vorrebbe costruire una coppia conforme; le contraddizioni di tutti i personaggi, anche etero, si scardinano mettendo in luce i desideri e le censure che ognuno subisce: in Italia la censura oscura il sesso esplicito, ma l’audio rimane integro. Il dramma Querelle (1982), dal romanzo di Genet,canto del cigno di Fassbinder, riflette su sessualità, desiderio e potere. Il porto di Brest con alti bastioni, torri falliche e decorazioni erotiche è spazio-tempo dell’immaginario desiderante dell’uomo, qui il marinaio Querelle affronta il proprio percorso d’identità, circuita con altri personaggi maschili in un continuo ribaltamento dei ruoli: tutti sono vittime e carnefici. L’unica femme ricorda la Dietrich, trascende tutti gli altri e canta la triste verità Each man kills the thing he loves, da Wilde. In Italia la scena della sodomizzazione di Querelle fu tagliata, stravolgendo il senso narrativo e la definizione psicologica del personaggio. Oltre ai tagli fu inserito un primo piano di B. Davis, ingrandendo il volto dal precedente totale dei due corpi, l’atto sessuale, amputato del suo significatoprofondo obbliga gli spettatori a vederci violenta libidine. L’opera assume i tratti immorali applicati dai censori, diventa il contrario di quanto era per Fassbinder che sublimava invece in poesia l’atto sessuale, che atto catartico, mortale e vitale al tempo stesso, è espressione di un fallimento che segna l’inizio di un’intima via crucis che porta il protagonista a confrontarsi con le contradditore dinamiche di potere maschile, in relazione agli altri e in se stesso.

Potentemente attuale Salò (1975) ultimo film di Pasolini, apoteosi dell’epifania del desiderio di potere, colloca Le 120 giornate di Sodoma di Sade nel crepuscolo fascista del ’44 e scandaglia, in tutti i suoi anfratti, ciò che il potere può esercitare sui corpi attraverso la vessazione sessuale. Pasolini dopo aver raccontato la sessualità gioiosa nella Trilogia della Vita, vede nel sesso con tutto il suo portato di desideri, l’organo principale che nutre il capitalismo e il controllo dei corpi; la violenza dei poteri subdoli, trasforma il popolo in massa, le persone in oggetti-merci.

I film presi ad esempio non sono solo gialli, comici, tragici o politici, pur stando a canoni linguistici classici non rientrano in clichè di genere. Sono opere che, ispirate da altri linguaggi creativi, affrontano le problematiche dell’uomo, attraverso questioni filosofiche, etiche, estetiche ed erotiche. Il cinema si è sempre nutrito di nuove forme, le avanguardie artistiche han fatto scuola travalicando i confini con nuovi linguaggi ed espressività, per quanto attaccate, fraintese, ed escluse dalla critica e dai circuiti di vendita, sono e hanno influenzato l’immaginario visivo. In tali opere i simboli di potere sono dissacrati, per svelare la loro brama coercitiva. Unico film di Jean Genet, Un Chant d’Amour (1950) altissima poesia sul desiderio maschile, fu ostacolato da continui attacchi censori accusato di oscenità è stato proiettato integro solo nel ‘71. In un carcere s’innesca il meccanismo voyeuristico tra la guardia, simbolo del potere, e due detenuti che anche se isolati riescono ad amarsi. Alla tenerezza del piacere e dei desideri vissuti dai carcerati innamorati, si contrappone la violenza della guardia, ingabbiata in un ruolo normalizzato, incapace di liberare i propri desideri, li impone con l’atto coercitivo, della violenza, la pistola è un fallo duro e ghiacciato che uccide. Sul film Derek Jarman disse: Genet ci accompagna dentro una prigione al fine di liberarci da essa.

Paladino del New American Cinema, ovvero underground e libero, Kenneth Anger già a diciassette anni si cimenta dietro la macchina da presa con Fireworks (1947), dove un ragazzo sogna di essere picchiato e violentato da un gruppo di giovani marinai. Con uno stile personalissimo mischia visioni surreali e macabre nevrosi omosessuali, immagini mitiche e simboli esoterici, fino a portare lo spettatore in territori inediti, rivoluzionari per la loro creatività ed energia evocativa. In Scorpio Rising (1963) simboli del potere economico, totalitario e religioso sono montati in un vortice pop immortalati con estetici dettagli, non solo moto e chiodo borchiato del look del protagonista sono feticci, ma tutte le icone della cultura di massa dalle svastiche, a Gesù, a Marlon Brando sono feticci, simulacrie veicolano gli stessi riti di morte e rinascita, portatori di una violenza istituzionalizzata. Spesso operazioni linguistiche così delicate sono fraintese, censurate o ostacolate, infatti l’ultimo progetto di Anger, a causa del furto di gran parte del materiale girato, fu ridotto a pochi minuti.

Le opere d’avanguardia di Jarman e Araki dimostrano come in epoca recente il tema del desiderio è ancora molto presente. Oggi però, il rischio di trattare temi così profondi è di svuotarne il senso. Ci sono ampi margini in cui la creatività esprime la critica al linguaggio e alle identità sociali omologate. Bruce Labruce sperimenta uno stile che fonde le tecniche e i linguaggi del cinema indipendente con la pornografia, in Raspberry Reich (2003) una bionda femminista è l’anima di un gruppo terrorista di Berlino, coi suoi slogan ispirati a Reich e Marcuse, dichiara la fine della monogamia e obbliga i maschi della banda a scoprire l’omoerotismo, pratica rivoluzionaria che risveglia le masse assopite dall’oppio del popolo (l’eterosessualità). Ispirandosi alle istanze della liberazione sessuale e di altri movimenti degli anni ’70, Labruce aggiorna il potenziale sovversivo di quel periodo sono molto affascinato dalle idee di quegli anni– dice il regista- perchè la sensazione è che oggi tutto sia ripiombato in un clima di estremo proibizionismo; la sessualità torna ad essere forma di lotta.

Ma i film di Labruce non sono dei porno. Oggi il porno è ridotto sempre più a brevi loop di atti sessuali, merce finalizzata al consumo, composta in sottogeneri chiusi, frutto di una perversa eugenetica, corpi perfetti sono totalmente reificati, depersonalizzati, incapaci di esprimere piacere. Questa merce oscena tende a modificare i desideri e a svuotarli del loro senso, riducendo la sessualità, sempre meno liberata, al consumo. Il corpo diventa un feticcio come la merce. E’ quindi assai difficile trovare opere considerate d’avanguardia che non cadano nella pura provocazione, nella sperimentazione sterile e finalizzata alla spettacolarizzazione. Il rischio è quello di aver molti stimoli privi di contenuti, significanti senza significato, pronti ad essere usati e manipolati dalle diverse subculture mediatiche per veicolarne il senso. Tuttavia esempi come Labruce ci dimostrano che in questo clima relativistico, in cui si giustifica tutto e il contrario di tutto, è possibile rinnovare il linguaggio in modo intelligente ed ironico.

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Caro Fallo ti scrivo. Articolo per Liberazione.

 

di Gian Maria Annovi

Liberazione, 29 agosto 08

 

Nel 1966, viene pubblicato a Cuba uno dei capolavori della letteratura del secolo scorso, il romanzo di José Lezama Lima Paradiso. Opera barocca, eruditissima e poetica, le sue quattromila copie non fecero in tempo ad arrivare nelle librerie dell’isola che furono immediatamente sequestrate dalle autorità del governo castrista. La ragione si trova nelle circa trenta pagine, sulle oltre 550 del volume, che costituiscono il capitolo VIII, sufficienti però a etichettare il romanzo come “pornografico e controrivoluzionario”. Al centro di quel capitolo stanno le descrizioni della “verga enorme” e del “dolmen fallico” di due superdotati studenti cubani, alle prese con le prime avventure etero e omosessuali. È interessante che anche un romanzo molto differente, Mafarka il futurista (1910) di Filippo Tommaso Marinetti, sia incappato in un tentativo di censura per motivi molto simili. Il romanzo del padre del Futurismo, ambientato in un trasfigurato Continente nero, narra in maniera concitata e straniante le avventure – eroiche e sessuali – dell’eponimo re africano, che non solo riesce a creare un gigantesco figlio senza ricorrere al coito, ma può anche vantare “un sesso interminabile, lungo undici metri”, nella migliore tradizione rabelaisiana. Se si presta fede alla lettura che ne ha dato Barbara Spackman nel suo Fascist Virilities, dal colonialismo al maschilismo, Mafarka è un concentrato di motivi che anticipano l’ideologia del fascismo, a cui lo scrittore avrebbe poi entusiasticamente aderito. Proprio la “retorica della virilità,” che pare costituire un valore nella Cuba di Castro (i campi di lavoro per omosessuali furono inaugurati nel ’65 al grido di “il lavoro rende uomini”) e nell’Italia pre e post mussoliniana, come ricorda memorabilmente anche l’Eros e Priapo di Carlo Emilio Gadda, sembra però paradossalmente ritorcersi contro due opere che osano presentare al lettore colossali simboli virili. La questione non riguarda solo l’esorcizzazione dello spettro dell’omosessualità, presente sia in Paradiso che nella riproduzione per partonogenesi al centro di Mafarka, ma punta dritto al piacere maschile. Dittature a parte, anche l’Italietta borghese degli anni Sessanta dimostra che intorno all’anatomia maschile si giocano questioni biopoliche e politiche del desiderio. È il caso del sequestro del film Teorema (1968) di Pier Paolo Pasolini, accusato di oscenità per aver mostrato, per la prima volta sugli schermi, un nudo di uomo integrale. Se lo spazio della fantasia, come ha scritto Slavoj Žižek, “funziona come una superficie vuota, una specie di schermo per la proiezione del desiderio,” l’ambito cinematografico risulta più sensibile alla registrazione del proibito, in quanto campo non velato dello sguardo, della visione. Non a caso, la castissima scena incriminata di Teorema non includeva nessuna delle smisurate erezioni che si possono invece incontrare nella scrittura dei romanzi citati in apertura. Per rendere conto delle falloforie letterarie è forse utile un’immagine evocata da Lacan nel Seminario XI, quella di un tatuaggio disegnato sul pene che assume, solo con l’erezione, la sua forma pienamente sviluppata. Il segno, la scrittura, si è sviluppata sin dalle origini nell’erezione, nel dominio di un logos fallico, contro il quale sono nati tutti i brillanti tentativi, soprattutto in ambito lesbico e femminista, di destrutturazione creativa del fallologocentrismo (si pensi alle esperienze straordinarie di Monique Wittig e Hélène Cixous). Ma per quale ragione, viene da chiedersi, proprio la rappresentazione erotica del sesso virile è spesso incappata – per dirla con Bataille – nell’interdizione? Forse perché anche il modello eterosessuale maschile è costruito attraverso proibizioni, prima tra tutte la proibizione di provare piacere attraverso la visione del pene eretto, qualcosa che nella logica psichica del potere può coincidere solo con la pulsione omosessuale. Il realtà, il desiderio maschile, trova il proprio piacere non solo, o non tanto, nel corpo femminile, che la costruzione industriale dell’immaginario pornografico etero ha così capillarmente codificato, ma anche nell’immagine del proprio sesso. Corrobora questa idea anche un volume recente, una raccolta di sette racconti erotici curata da Gianni Biondillo per i tipi di Guanda, Pene d’amore. L’idea di quest’antologia è di “restituire dignità all’immaginario erotico maschile”, rivendicando anche per il “sesso maschio” (sic) il medesimo spazio che secondo il curatore avrebbe assunto la letteratura erotica femminile, dove l’uomo – al pari che nell’iconografia pornografica – “è acefalo”, non esposto “nelle sue debolezze”, nella sua psicologia. I racconti presentati sono a dire il vero piuttosto deludenti, ma questo Pene d’amore qualcosa rivela e proprio a partire dal titolo che, nel dichiarato giochetto tra singolare e plurale, ci mostra come non sia un desiderio frustrato il tema della raccolta ma – più prosaicamente – l’organo maschile e la sua celebrazione. Anzi, per citare il bel metaracconto di Tiziano Scarpa, forse l’unico gioiellino (di famiglia) della raccolta, il protagonista indiscusso di questi racconti è un cardiopene. Un cazzo con attaccato un cuore, un essere autonomo, come già avveniva nel meno riuscito dei romanzi di Moravia, Io e lui, che attraverso il filtro di un’ironia tutta borghese, raccontava i dialoghi tra un uomo e il proprio esuberante attributo. Cruda com’è, credo che per questa via si arrivi per grosse approssimazioni ad uno almeno degli aspetti del desiderio maschile, quello di un’estetica del piacere fallico. Non è allora irrilevante che proprio la protagonista femminile del primo e fortunato romanzo di Scarpa, Gli occhi sulla graticola (1996), si guadagni da vivere disegnando le parti sessuali censurate nei fumetti erotici giapponesi, in un vero e proprio recupero certosino dell’interdetto. E ancor meno irrilevanti sono le preoccupazioni di Bruno, uno dei protagonisti di Le particelle elementari (1998) di Houellebecq, masturbatore cronico ossessionato dalle sue poco soddisfacenti dimensioni anatomiche, al pari dello straordinario personaggio creato nel suo ciclo di body-bildungsroman da Walter Siti, forse lo scrittore che sta maggiormente destrutturando l’immaginario maschile e omosessuale in Italia. Se esistono modelli di desiderio maschile, questi desideri passano anche attraverso un immaginario, un’estetica fallica rinvenibile ampiamente non solo nella cyber sfera e nell’industria pornografica, ma anche in letteratura. Basti pensare al famoso Appunto 55, Il pratone della Casilina, contenuto nel romanzo incompiuto di Pasolini, Petrolio (1992). In questo appunto, il protagonista della vicenda, trasformato in donna, si fa possedere da venti ragazzi, di ognuno dei quali descrive con precisione minuziosa e stupita l’organo sessuale, quasi si trattasse di un miracolo, un ricongiungimento cosmico. Non è un caso che queste epifanie falliche avvengano nel momento in cui il protagonista, che ha mantenuto la sua identità maschile, si ritrova in un corpo che manca proprio dell’oggetto del suo desiderio. Si potrebbe a questo punto tentare di avventurarsi nella distinzione freudiano-lacaniana tra pene e fallo, dove quest’ultimo è l’estremo oggetto del desiderio che abbiamo perso e che cerchiamo continuamente senza mai averlo veramente posseduto. Il fallo come significante della mancanza, insomma, indice di un desiderio che non può essere soddisfatto. Sono distinzioni utili, certo, ma come ha notato giustamente Judith Butler, il fallo non sarebbe nulla senza il pene, e la sua identità comprende quest’ultimo, nonostante la parte anatomica non sia mai commensurabile al fallo stesso. Se la “destituzione del simbolico egemonico della differenza sessuale” e la “liberazione critica di schemi immaginari alternativi” sono anche l’obiettivo di chi si propone di indagare il “continente nero” del desiderio maschile, per ribaltare l’espressione di Freud a proposito dell’universo femminile, occorre forse fare un passo indietro e – senza mai abbandonare il piano della critica e della denuncia – considerare il pene non solo come uno strumento di potere fallocratico e di violenza ma anche come un organo di desiderio e di piacere, piacere che appartiene prima di tutto – ma non solo – alle più intime fantasie dell’uomo. È infatti la qualità sovversiva del piacere, l’espressione libera del proprio desiderio, ciò che non può tollerare il potere che pretende di regolamentare i nostri corpi e le nostre vite. È qualcosa che avviene anche attraverso la censura del corpo maschile e la costruzione capillare di un’immagine dell’uomo: quella di una virilità indifferente, rapace, violenta, “il celodurismo” acriticamente assunto da molti, contro il quale non si può non abbassare la guardia. Non per nulla, è proprio questo tipo di virilità a risultare “indifferente e perfino sconosciuta” al protagonista iper-priapico delle trenta pagine “pornografiche e controrivoluzionarie” del Paradiso di Lezama Lima: un canto non di violenza ma di piacere.

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La nonviolenza non è una cosa da duri. Articolo per Liberazione

Alessia Acquistapace – laboratorio Smaschieramenti

Liberazione 22 agosto 2008

 

Viviamo in un’epoca in cui ci rubano le parole. Nel nostro paese, fischiare un politico è diventata una ‘violenza inaccettabile’, proprio mentre le guerre si chiamano missioni di pace. Il paradosso è tutt’altro che divertente. Si è affermata, purtroppo non solo a destra, l’idea per cui una protesta è violenta se è illegale o fastidiosa, mentre sarebbe "nonviolenta" se è disciplinata, garbata, opportuna.

Eppure la parola nonviolenza ha un significato preciso e la sua storia è piena di azioni illegali e disdicevoli – neri seduti accanto ai bianchi nei ristoranti, giovani maschi che rifiutano di prestare il servizio militare obbligatorio…

Fu il movimento che si preparava, ancora lontano dai riflettori, al G8 di Genova, a parlare di nonviolenza, prima che i media si appropriassero di questa parola per restituircela svuotata. Eppure, lo stesso movimento ne ha ratificato lo svuotamento, riproducendolo nei propri discorsi o rinunciando alla parola nonviolenza.

I media chiamano "non violenza" la legalità e l’accettabilità sociale, e su questo confine schierano i buoni di qua, i cattivi di là. Accettando la loro definizione, o comunque riducendo la nonviolenza al veto castrante di non far male a una mosca, alcuni nel movimento l’hanno intesa come una scelta strategica per farsi mettere dalla parte dei buoni – obiettivo peraltro spesso fallito. Altri e altre, forse temendo la castrazione, hanno invece rifiutato la nonviolenza, col triste risultato di un ritorno di militanza virilista.

Ma nella teoria nata da Gandhi e dalle lotte per la liberazione dell’India, la nonviolenza non era affatto un confine che divide un qua e un , bensì qualcosa a cui tendere, ricerca continua; essa non fu mai un’autocensura, e tantomeno un impegno astratto e ideale, bensì uno stimolo all’ideazione di nuove pratiche, alla trasformazione di sé e del mondo. Nonviolenza è la traduzione dall’hindi di Satyagraha, termine che richiama autenticità, coerenza di mezzi e fini. Usare o minacciare violenza a fini ‘pacifici’ non ha senso. Ugualmente non può essere definita nonviolenta un’azione apparentemente pacifica che ha come fine la violenza, l’ingiustizia, il sopruso.

Ci hanno già rubato molte parole chiave. Non possiamo, per paura di essere colti in fallo sul loro binarismo violenti-nonviolenti, rispondere ‘va bene, allora siamo violenti’, o rispolverare l’ambigua distinzione fra la violenza degli oppressi e degli oppressori. Né d’altra parte possiamo permettere che i telegiornali diventino la nostra coscienza, col paradossale risultato che dopo che a Genova ci hanno sparato addosso, finiamo ad autoflagellarci o scannarci fra noi perché qualcuno dei ‘nostri’ ha lanciato una bottiglietta, dandogli il pretesto per dire che siamo dei violenti.

Il discrimine, per me, non è fra quelli cui è capitato di spintonare un poliziotto e quelli che se ne sono tenuti alla larga, ma fra chi vede in ciò un occasione di ingigantimento del proprio pene e chi no. Fra chi prova a smantellare la cultura della violenza dentro e fuori di sé e chi, al di là delle dichiarazioni, questa cultura continua a coltivarla.

Mi sembrava, nei mesi precedenti il G8 di Genova, che non fosse solo questione di immagine, e circolasse la sensazione che la violenza non poteva funzionare, che ci voleva qualcosa di nuovo. Si usava la fantasia per trovare nuove strade, e il gruppo pink, esperto nel deridere violenza e virilismo, non a caso era protagonista. Ma poi successe l’inimmaginabile, e sotto il martellamento mediatico, alla polemica anche interna di chi era ancora per i metodi violenti, nessuno/a ha saputo formulare una risposta più autentica di quella dell’opportunità, del ‘sennò poi i giornali scrivono….’.

Parlo di Genova, ma intanto mi sembra sia cresciuta una nuova generazione di militanti maschi e femmine che non ha cognizione di tutto ciò, e che vede gli scontri con la polizia come un videogame o un rito di iniziazione.

La scelta della nonviolenza si scontra con il macismo, cioè con il gioco a chi ce l’ha più duro. E non perché, come si dice spesso, la violenza è maschile e la nonviolenza femminile. Su questo equivoco si producono i peggiori paradossi, perché, ad esempio, una donna potrebbe sentircisi a ragione un po’ stretta, e voler rivendicare di essere capace anche lei di fare a botte. Le donne non sono pacifiche per natura. E’ al massimo la nostra storia che ci ha avvicinate, nelle ultime migliaia di anni, alla cura più che all’aggressività. Riappropriarci di questa storia e ridargli valore ci ha restituito la stima di noi stesse e delle nostre nonne. Ma la stessa storia millenaria ci ha viste vittime di violenze sistematiche, cosa che non fa bene e che non rende buone – tutt’altro: le donne sono capaci di violenze sottili ed atroci, verso se stesse e verso gli altri. Ma negli anni ’60 e ’70, riflettendo collettivamente sulle violenze subite ed agite, sull’oppressione iscritta nella loro stessa identità, le donne hanno attuato una decostruzione della violenza fra i generi, che si è rivelata una pratica efficace per liberarsene senza agirla a propria volta. E’ in questo senso che la nonviolenza è affine col femminismo, e non con il femminile, e la violenza con il maschilismo, non con il maschile. E’ una questione di storia e di scelta politica, non di natura, perché donne, gay, lesbiche, se vogliono, sono purtroppo capacissime di fare i maschiacci.

Ultimamente, molte realtà del movimento sentono il bisogno di dichiararsi dalla parte delle donne, dei gay, di assimilare un po’ di lessico da gender studies, ma quasi mai di cambiare le proprie pratiche. Come per la violenza, tutto si riduce a un mettersi dalla parte giusta. I maschilisti sono gli altri, le discriminazioni, il macismo, vanno combattuti sì, ma fuori di noi. E’ un fenomeno strano, che coinvolge le stesse vittime del sessismo, come quando le donne italiane si scandalizzano per l’oppressione delle altre (le arabe) solo per poter dimenticare la propria. Ma la vera urgenza, di fronte all’emergenza virilista, è proprio quella di smaschierarsi, e ritrovare il coraggio di una politica che parta da sé, dalla trasformazione di sé stessi e del mondo.

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Appello per viedoinchiesta sulle relazioni

 

SEI SINGLE? SEI MULTIPLO/A?

SEPARATO/A? DIVORZIATO/A? PROMISCUO/A?

NON HAI FIGLI?

I TUOI COINQUILINI/E SONO DIVENTATI LA TUA FAMIGLIA?

QUANDO IL PRINCIPE AZZURRO TI HA TROVATO SEI CORSA A NASCONDERTI MEGLIO? (O VORRESTI AVERLO FATTO)

LA TUA VITA E’ COMPLICATA?

TI SENTI POCO NORMALE?

 

LABORATORIO SMASCHIERAMENTI

 

 

alla ricerca di nuove forme (esistenti, tentate, desiderate o immaginate) di relazione, affettività, sessualità, famiglia

 

gruppo di discussione, inchiesta, azione e delirio

@ atlantide

piazza di porta santo stefano 6

partecipazione aperta e libera

ci siamo (quasi) ogni mercoledì

per info:

infosmaschieramenti@inventati.org

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