da King kong theorie, di Virginie Despentes

"Questa immagine della prostituta, che si ama tanto esibire, privata di tutti i suoi diritti, della sua autonomia … ha molteplici funzioni. In particolare: far vedere agli uomini che hanno volgia di andare a puttane fino a che punto devono abbassarsi per farlo. Anche loro vengono ricondotti nel matrimonio, direzione cellula familiare: tutti a casa. E’ anche un modo di ricordare loro che la loro sessualità è necessariamente mostruosa, fa delle vittime, distrugge delle vite. Infatti la sessualità maschile deve restare criminalizzata, asociale e mincciosa. … Quando si impedisce alle puttane di lavorare in condizioni decenti, è evidentemente con le donne che ce la si prende, ma si controlla anche la sessualità degli uomini. … La questione non è solo di nascondere agli occhi di quanti abitano sul lungofiume in centro, ai più ricchi di noi, questa popolazione povera. Passando attraverso il corpo della donna, strumento decisamente essenziale all’elaborazione politica della mistica virile, il governo decide di deportare fuori dalle citta il desiderio bruto degli uomini. … Le donne sono lacerate fra queste due opzioni incompatibili (madre o puttana). E gli uomini sono bloccati di fronte a quest’altra dicotomia: quo che li eccita deve restare un problema. Soprattutto, nessuna riconciliazione, è un imperativo. Perchè gli uomini hanno questo di particolare, che tendono a disprezzare ciò che desiderano, così come a disprezzare se stessi per la manifestazione fisica di questo desiderio. Fondamentalmente in disaccordo con se stessi, si eccitano per ciò di cui hanno vergogna.

Una frase mi ha segnata, ripetuta varie volte dai clienti, uomini diversi, dopo sedute diverse fra loro. Mi dicevano, con un tono dolce e un po’ triste, comunque rassegnato: "E’ a causa dei maschi come me che delle femmine come te fanno quello che fanno". Era un modo per ricollocarmi al mio posto di ragazza perduta, dal momento che non davo abbastanza l’impressione di soffrire per quello che facevo. Era anche una frase che esprimeva quanto confrontarsi con il proprio piacere sia doloroso per i maschi: quello che mi piace fare con te è necessariamente portatore di sventura. Faccia a faccia con il loro senso di colpa. Necessità di vergognarsi del proprio piacere, anche quando trovasse soddisfazione in un contesto che non fa del male e che soddisfa in egual modo entrambe le parti. Il desiderio degli uomini deve ferire le donne, macchiarle. E, di conseguenza, colpevolizzare gli uomini. Non è una fatalità, ancora una volta, ma una costruzione politica. Gli uomini attualmente non danno segnali di volersi liberare da questo genere di catene. Anzi.

…. 

Nei film, l’attrice hard ha una sessualità maschile. Si comporta esattamente come un omossessuale in una back room. Viene messa in scena nei film come una che vuole del sesso, non importa con chi, che ne vuole attraverso tutti i buchi, e ne gode ogni volta. Se si guarda un film a luci rosse eterosessuale, ci si rende conto ch è sempre il corpo femminile a essere valorizzato, mostrato, sul quale si punta per fare effetto. … Lo spettatore si identifica soprattutto con lei, più che con il protagonista maschile. Così come ci si identifica spontaneamente con chi viene messo in valore, in qualsiasi tipo di film. Il porno è anche il modo in cui gli uomini immaginano ciò che farebbero se fossero delle donne, come si applicherebbero per soddisfare altri uomini, per essere delle gran zoccole, delle mangiatrici di cazzi.

… 

Piace parlare delle donne, agli uomini. Così possono evitare di parlare di sè. Come si spiega che in trent’anni nessun uomo abbia prodotto il più piccolo testo innovativo rispetto alla mascolinità? Loro che sono così chiacchieroni e così competenti quando si tratta di concionare sulle donne, perchè questo silenzio su ciò che li riguarda? Infatti sappiamo che più parlano, meno dicono. Dell’essenziale, di quello che hanno veramente in testa. Vogliono che parliamo di loro, a nostra volta? per esempio, volgiono sentirsi dire a cosa assomigliano, visti dall’esterno, i loro stupri collettivi? Si direbbe che vogliono vedersi scopare, guardarsi reciprocamente il cazzo, essere insieme mentre hanno l’erezione, si direbbe che ahnno voglia di metterselo nel culo. Si direbbe che hanno paura di confessare a se stessi che ciò di cui hanno veramente voglia, è di scopare gli uni con gli altri. Agli uomini piacciono gli uomini. Ci spiegano ogni momento quanto amano le donne ma sappiamo tutte che ci dicono delle frottole. Si piacciono, tra di loro. Si scopano attraverso le donne, molti di loro pensano già agli amici quando sono dentro a una fica. Si guardano al cinema, si affibiano dei bei ruoli, si trovano potenti, fanno gli spacconi, non smettono di compiacersi di essere così belli, forti e coraggiosi. Scrivono gli uni per gli altri, si congratulano, si sostengono. Hanno ragione. ma a forza di sentirli lamentarsi che le donne non scopano abbastanza, che non amano il sesso come dovrebbero, non capiscono mai niente, non si può fare a meno di chiedersi: cosa aspettano per incularsi? Su, coraggio. Se vi può rendere più sorridenti, vuol dire che va bene. ma, tra le altre cose che sono state loro inculcate, c’è la paura di essere una checca, l’obbligo di essere attratti dalle donne. Allora, rigano dritto. Sbuffano, ma obbediscono. Di sfuggita, prendono a sberle una ragazza o due, furiosi di doverci avere a che fare.

… 

Lo stupro, d’accordo, è triste, ma bisogna andarci piano con i vagiti, signore. Troppo poco dignitosi. … Nascondete le vostre ferite, signore. Potrebbero dar fastidio al torturatore. Essere una vittima dignitosa. Cioè che sa tacere

Vuoi che tutti ti vedano come una donna cui è successo questo? E come puoi esserne uscita viva, senza essere una zoccola patentata? Una donna che avesse tenuto alla propria dignità avrebbe preferito farsi ammazzare. La mia sopravvivenza, in quanto tale, è una prova che parla contro di me. Il fatto di essere più terrorizzata all’idea di essere ammazzata che di essere traumatizzata dai colpi di reni di tre balordi, appariva come una cosa mostruosa"

Virginie Despentes, King kong girl, Einaudi, 2007 (King kong theorie, Edition Grasset & Fasquelle, 2006)

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Cinture di castità, di Diane di Prima

"Sì, era bello essere la donna di tre uomini, ciascuno col suo trip, ciascuno voleva una cosa diversa, in modo che il mondo si allargava, e interagiva, com una foto impresionata tre volte, creando uno spazio infinito. Da allora ho scoperto che di solito è bene essere la donna di molti uomini, o essere una delle molte donne sulla scena di un uomo, o essere una delle molte donne in una casa con molti uomini, con una situazione complessiva mutevole e ambigua. Quello che non è bello, quello che è claustrofobico e mortale, è il solito rapporto a due. Va bene per un fine settimana, o un mese in montagna, non va bene per il lungo periodo, non va bene una volta che entrambi vi siete detti che così deve essere tutta la vostra vita. Allora inziano innumerevoli pretese, e inganni per evitare la noia, e la lenta inesorabile chiusura dell’infinito orizzonte divino, come i muri incandescenti che si stringono intorno al protagonista nel Pozzo e il pendolo di Poe, muri che si chiudono implacabili a soffocare completamente la vita nel vostro modno.
Nel Medioevo c’erano le cinture di castità ma quelle, almeno, si potevano affrontare, con un seghetto se non altro. Ai tempi dei nostri genitori c’era il matrimonio, e a volte c’è anche oggi, e anche quello è abbastanza brutto, ma è una formula legale, e si può risolvere con un altro po’ della stessa roba, di altre carte. E’ spiacevole, ma è solo un aspetto del mostro. Il vero orrore, l’incubo in cui la maggior parte di noi trascorre la vita adulta, è l’insidiosa e ben radicata fede nel mondo a due. Il mondo di "questo è mio marito". Vivi con un uomo, e cominci ad avere delle pretese nei suoi confronti. Vivi con cinque, e hai le stesse pretese, ma allargate, ambigue, indefinite. Ciò che non è soddisfatto da uno, verrà facilmente soddisfatto dall’altro, nessuno si sentirà frustrato dai sensi di colpa e di inadeguatezza, e nessuno verrà messo con le spalle al muro da richieste che non può esaudire…"
 
(Diane di Prima, Memorie di una beatnick, 1969)

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Da Scontro di civiltà per un ascensore a piazza vittorio, di Amara Lakhous

Decimo ululato (L’incubo di Amedeo)

da Amara Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a piazza vittorio, ed. E/O, 2006 

 

Mi ha svegliato poco fa l’ospite delle tenebre, lo stesso incubo che viene a trovarmi ogni tanto. Non torno a dormire. Che cos’è l’incubo? L’incubo è un cane feroce. Mio nonno era un contadino, non ha mai abbandonato il suo villaggio nelle montagne di Djurdjura e mi diceva sempre: “quando un cane ti annusa non scappare, rimani fermo e fissalo negli occhi. Vedrai, farà un passo indietro. Invece se scappi ti correrà dietro e ti morderà.” Io non fuggo di fronte agli incubi. Li guardo in faccia ricordando tutti i dettagli. Li sfido senza paura, perché il cesso è la tomba dell’incubo. Eccolo l’incubo in versione integrale:

Vedo… vedo me stesso uscire dal buco della vita coperto di sangue. I cuori dei parenti battono molto forte. Avanti, mamma! Mia madre lotta contro i dolori del parto e alza la testa con difficoltà. Prima di asciugarmi le lacrime e di stampare i primi baci sulle mie guance rosse, mia madre dà un’occhiata con angoscia e ansia al di sotto dell’ombelico. Adesso tira un lungo sospiro. Dio e santi hanno accolto la sua implorazione.

– Dhakar! Dhakar! Dhakar!(1)

– Yuuuuuyuuuuuuyuuuuuuuuuuu…

Così accolgo la vita con le lacrime e lei, la vita, mi accoglie con gli zagharid (2). Non importa se il neonato dhakar sia bello o brutto. Non importa se il neonato sia sano o malato. Non importa se il nascituro… non importa… non importa. Ciò che importa è che è un dhakar. Anzi, ciò che conta alla fine non sono io. Quello che conta veramente è il mio dhakar.

Vedo… Vedo il mio dhakar o il dhakar della mia famiglia crescere fino al momento della circoncisione. Vedrò il mio sangue scorrere e maledirò gli zagharid che soffocherano il mio singhiozzo. Ricorderò gli zagharid della nascita un’altra volta e vedrò il mio sangue cadere a gocce per terra. Perchè hanno sgozzato il dhakar? La chiamano la festa della purificazione! A loro il canto, il ballo e la gioia e a me il dolore, le lacrime e la sofferenza: quello che mi fa male è di non essere stato consultato. Ma a chi appartiene il dhakar, a me o a loro? Vedrò il dhakar crescere e militare in clandestinità. E in fretta la piccola testa rossa entrerà nella vita pubblica con il matrimonio. Così il mio dhakar si sposa e io mi trovo nei guai. La prima notte di matrimonio il mio odio per chi mi ha ingannato aumenterà.

Vedo… vedo me stesso di fronte al muro della verginità. La muraglia cinese! Le montagne dell’Himalaya! Quanto sono triste per gli anni perduti. Mi hanno detto che l’adulterio viene punito con cento frustate. Mi hanno combattuto con tutte le armi: Dio, i profeti, i santi, la religione, la consuetudine, la buona condotta, il giudizio della gente, l’Aids. Così saliamo sul ring come due pugili al loro primo match. Lei ha paura e anch’io. I consigli, le raccomandazioni rimarranno fuori dalla nostra camera da letto. Però lei ha più paura di me. Mi faccio coraggio con un bicchiere o due e con qualche sigaretta. Cosa le dico? Non le dirò nulla. Le mie parole la incoraggeranno e mi indeboliranno. Vittima o carnefice! No c’è altra scelta. Non alza gli occhi. Ha paura più di me. La bacerò? La carezzerò? Cos’è questo tira e molla? Tutti aspettano dietro la porta. Le bocche delle donne sono piene di zagharid. Maledetti zagharid! Deve penetrare il muro. Questo è fuori discussione. Potrebbe tradirmi all’ultimo minuto, e pagherei un prezzo troppo alto. Io non mi fido di lui. Non mi fido di nessuno. Potrei cadere nella trappola della magia delle donne cattive che rubano la virilità ai maschi. E sarei colpito dalla maledizione di marbout (3). Ma è il signor dhakar a salvarmi da questa notte folclorica. Dai, avanti! Non si sentiranno zagharid se non scorrerà il liquido sacro. Il dhakar è il coltello che sgozza la verginità. Avanti! Sangue! Sangue! Sangue! Sangue! Sangue! Sangue!

– Yuuuuuuyuuuuuuyuuuuuuuu….

Vedo… vedo me stesso uscire dalla camera coperto di sangue. La mia famiglia, quella della sposa e gli ospiti mi assaltano come vespe che si accaniscono su una carogna. Dopo un po’ sento dei denti dentro la mia carne, vedo il mio sangue per terra, apro gli occhi con difficoltà e vedo tanti lupo che mi circondano da tutte le parti…

 

 

  1. In arabo significa sia maschio che pene

  2. Acuto ululato tipicamente femminile che sottolinea particolari momenti di gioia.

  3. Stregoneria femminile che causa l’impotenza sessuale.

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Potere e desiderio maschile nel cinema. Articolo per Liberazione

 

di Christian Battiferro, Viviana Indino, Marco Puggioni

Liberazione, 29 agosto 2008

Nel cinema il tema del desiderio maschile e i legami contradditori alle logiche di potere sono presenti in varie forme. Attingendo dai desideri e dai bisogni della società, il cinema può indurre, manipolare o nutrire a sua volta gli stessi desideri delle masse; semplificato in categorie si distingue in generi per facilitare le scelte degli spettatori. Conscio del proprio potere, l’uomo attraverso il cinema, ha imposto modelli omologanti, dettato regole e dispositivi normalizzanti. Ne è esempio il Codice Hays, attuato ad Hollywood dal’34 al’67 sostenuto dai poteri cattolici, impose e veicolò modi e standard morali; altro esempio è come il porno acquista sempre più valore nel mercato: dal’69, in USA, il porno si può vedere a casa protetto dal diritto alla privacy, mentre in Danimarca veniva liberalizzato. Il cinema allarga, stringe, e ricrea i confini del desiderio, non solo nei generi cinematografici, ma anche negli spettatori in genere. All’inizio degli anni ’80, quando l’ombra dell’AIDS incombeva sulla liberazione sessuale della società, alcuni film significativi narrano di ambigue pulsioni maschili. Negli States esce, ostacolato dal movimento gay, Cruising (1980) di W. Friedkin, che in realtà indaga la passione omofobica che deriva dall’autocensura: Al Pacino è un poliziotto che per scovare un serial killer s’infiltra nel mondo gay sadomaso, dove la sua sicura identità verrà man mano infranta tra l’emergere d’inconsce pulsioni e resistenze, finché allo specchio si riconoscerà altro. Nella scena della violenza contro un gay, reo di essere il compagno della persona desiderata, come in quella dell’abuso di due trans da parte di una pattuglia, la contraddizione del desiderio negato emerge violenta perché contraria all’immagine normale che si ha di sé. Di tutt’altro genere Ai cessi in tassì (1981) di e con Frank Ripploh, un gay che vive liberamente il suo desiderio, mentre il suo compagno vorrebbe costruire una coppia conforme; le contraddizioni di tutti i personaggi, anche etero, si scardinano mettendo in luce i desideri e le censure che ognuno subisce: in Italia la censura oscura il sesso esplicito, ma l’audio rimane integro. Il dramma Querelle (1982), dal romanzo di Genet,canto del cigno di Fassbinder, riflette su sessualità, desiderio e potere. Il porto di Brest con alti bastioni, torri falliche e decorazioni erotiche è spazio-tempo dell’immaginario desiderante dell’uomo, qui il marinaio Querelle affronta il proprio percorso d’identità, circuita con altri personaggi maschili in un continuo ribaltamento dei ruoli: tutti sono vittime e carnefici. L’unica femme ricorda la Dietrich, trascende tutti gli altri e canta la triste verità Each man kills the thing he loves, da Wilde. In Italia la scena della sodomizzazione di Querelle fu tagliata, stravolgendo il senso narrativo e la definizione psicologica del personaggio. Oltre ai tagli fu inserito un primo piano di B. Davis, ingrandendo il volto dal precedente totale dei due corpi, l’atto sessuale, amputato del suo significatoprofondo obbliga gli spettatori a vederci violenta libidine. L’opera assume i tratti immorali applicati dai censori, diventa il contrario di quanto era per Fassbinder che sublimava invece in poesia l’atto sessuale, che atto catartico, mortale e vitale al tempo stesso, è espressione di un fallimento che segna l’inizio di un’intima via crucis che porta il protagonista a confrontarsi con le contradditore dinamiche di potere maschile, in relazione agli altri e in se stesso.

Potentemente attuale Salò (1975) ultimo film di Pasolini, apoteosi dell’epifania del desiderio di potere, colloca Le 120 giornate di Sodoma di Sade nel crepuscolo fascista del ’44 e scandaglia, in tutti i suoi anfratti, ciò che il potere può esercitare sui corpi attraverso la vessazione sessuale. Pasolini dopo aver raccontato la sessualità gioiosa nella Trilogia della Vita, vede nel sesso con tutto il suo portato di desideri, l’organo principale che nutre il capitalismo e il controllo dei corpi; la violenza dei poteri subdoli, trasforma il popolo in massa, le persone in oggetti-merci.

I film presi ad esempio non sono solo gialli, comici, tragici o politici, pur stando a canoni linguistici classici non rientrano in clichè di genere. Sono opere che, ispirate da altri linguaggi creativi, affrontano le problematiche dell’uomo, attraverso questioni filosofiche, etiche, estetiche ed erotiche. Il cinema si è sempre nutrito di nuove forme, le avanguardie artistiche han fatto scuola travalicando i confini con nuovi linguaggi ed espressività, per quanto attaccate, fraintese, ed escluse dalla critica e dai circuiti di vendita, sono e hanno influenzato l’immaginario visivo. In tali opere i simboli di potere sono dissacrati, per svelare la loro brama coercitiva. Unico film di Jean Genet, Un Chant d’Amour (1950) altissima poesia sul desiderio maschile, fu ostacolato da continui attacchi censori accusato di oscenità è stato proiettato integro solo nel ‘71. In un carcere s’innesca il meccanismo voyeuristico tra la guardia, simbolo del potere, e due detenuti che anche se isolati riescono ad amarsi. Alla tenerezza del piacere e dei desideri vissuti dai carcerati innamorati, si contrappone la violenza della guardia, ingabbiata in un ruolo normalizzato, incapace di liberare i propri desideri, li impone con l’atto coercitivo, della violenza, la pistola è un fallo duro e ghiacciato che uccide. Sul film Derek Jarman disse: Genet ci accompagna dentro una prigione al fine di liberarci da essa.

Paladino del New American Cinema, ovvero underground e libero, Kenneth Anger già a diciassette anni si cimenta dietro la macchina da presa con Fireworks (1947), dove un ragazzo sogna di essere picchiato e violentato da un gruppo di giovani marinai. Con uno stile personalissimo mischia visioni surreali e macabre nevrosi omosessuali, immagini mitiche e simboli esoterici, fino a portare lo spettatore in territori inediti, rivoluzionari per la loro creatività ed energia evocativa. In Scorpio Rising (1963) simboli del potere economico, totalitario e religioso sono montati in un vortice pop immortalati con estetici dettagli, non solo moto e chiodo borchiato del look del protagonista sono feticci, ma tutte le icone della cultura di massa dalle svastiche, a Gesù, a Marlon Brando sono feticci, simulacrie veicolano gli stessi riti di morte e rinascita, portatori di una violenza istituzionalizzata. Spesso operazioni linguistiche così delicate sono fraintese, censurate o ostacolate, infatti l’ultimo progetto di Anger, a causa del furto di gran parte del materiale girato, fu ridotto a pochi minuti.

Le opere d’avanguardia di Jarman e Araki dimostrano come in epoca recente il tema del desiderio è ancora molto presente. Oggi però, il rischio di trattare temi così profondi è di svuotarne il senso. Ci sono ampi margini in cui la creatività esprime la critica al linguaggio e alle identità sociali omologate. Bruce Labruce sperimenta uno stile che fonde le tecniche e i linguaggi del cinema indipendente con la pornografia, in Raspberry Reich (2003) una bionda femminista è l’anima di un gruppo terrorista di Berlino, coi suoi slogan ispirati a Reich e Marcuse, dichiara la fine della monogamia e obbliga i maschi della banda a scoprire l’omoerotismo, pratica rivoluzionaria che risveglia le masse assopite dall’oppio del popolo (l’eterosessualità). Ispirandosi alle istanze della liberazione sessuale e di altri movimenti degli anni ’70, Labruce aggiorna il potenziale sovversivo di quel periodo sono molto affascinato dalle idee di quegli anni– dice il regista- perchè la sensazione è che oggi tutto sia ripiombato in un clima di estremo proibizionismo; la sessualità torna ad essere forma di lotta.

Ma i film di Labruce non sono dei porno. Oggi il porno è ridotto sempre più a brevi loop di atti sessuali, merce finalizzata al consumo, composta in sottogeneri chiusi, frutto di una perversa eugenetica, corpi perfetti sono totalmente reificati, depersonalizzati, incapaci di esprimere piacere. Questa merce oscena tende a modificare i desideri e a svuotarli del loro senso, riducendo la sessualità, sempre meno liberata, al consumo. Il corpo diventa un feticcio come la merce. E’ quindi assai difficile trovare opere considerate d’avanguardia che non cadano nella pura provocazione, nella sperimentazione sterile e finalizzata alla spettacolarizzazione. Il rischio è quello di aver molti stimoli privi di contenuti, significanti senza significato, pronti ad essere usati e manipolati dalle diverse subculture mediatiche per veicolarne il senso. Tuttavia esempi come Labruce ci dimostrano che in questo clima relativistico, in cui si giustifica tutto e il contrario di tutto, è possibile rinnovare il linguaggio in modo intelligente ed ironico.

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Caro Fallo ti scrivo. Articolo per Liberazione.

 

di Gian Maria Annovi

Liberazione, 29 agosto 08

 

Nel 1966, viene pubblicato a Cuba uno dei capolavori della letteratura del secolo scorso, il romanzo di José Lezama Lima Paradiso. Opera barocca, eruditissima e poetica, le sue quattromila copie non fecero in tempo ad arrivare nelle librerie dell’isola che furono immediatamente sequestrate dalle autorità del governo castrista. La ragione si trova nelle circa trenta pagine, sulle oltre 550 del volume, che costituiscono il capitolo VIII, sufficienti però a etichettare il romanzo come “pornografico e controrivoluzionario”. Al centro di quel capitolo stanno le descrizioni della “verga enorme” e del “dolmen fallico” di due superdotati studenti cubani, alle prese con le prime avventure etero e omosessuali. È interessante che anche un romanzo molto differente, Mafarka il futurista (1910) di Filippo Tommaso Marinetti, sia incappato in un tentativo di censura per motivi molto simili. Il romanzo del padre del Futurismo, ambientato in un trasfigurato Continente nero, narra in maniera concitata e straniante le avventure – eroiche e sessuali – dell’eponimo re africano, che non solo riesce a creare un gigantesco figlio senza ricorrere al coito, ma può anche vantare “un sesso interminabile, lungo undici metri”, nella migliore tradizione rabelaisiana. Se si presta fede alla lettura che ne ha dato Barbara Spackman nel suo Fascist Virilities, dal colonialismo al maschilismo, Mafarka è un concentrato di motivi che anticipano l’ideologia del fascismo, a cui lo scrittore avrebbe poi entusiasticamente aderito. Proprio la “retorica della virilità,” che pare costituire un valore nella Cuba di Castro (i campi di lavoro per omosessuali furono inaugurati nel ’65 al grido di “il lavoro rende uomini”) e nell’Italia pre e post mussoliniana, come ricorda memorabilmente anche l’Eros e Priapo di Carlo Emilio Gadda, sembra però paradossalmente ritorcersi contro due opere che osano presentare al lettore colossali simboli virili. La questione non riguarda solo l’esorcizzazione dello spettro dell’omosessualità, presente sia in Paradiso che nella riproduzione per partonogenesi al centro di Mafarka, ma punta dritto al piacere maschile. Dittature a parte, anche l’Italietta borghese degli anni Sessanta dimostra che intorno all’anatomia maschile si giocano questioni biopoliche e politiche del desiderio. È il caso del sequestro del film Teorema (1968) di Pier Paolo Pasolini, accusato di oscenità per aver mostrato, per la prima volta sugli schermi, un nudo di uomo integrale. Se lo spazio della fantasia, come ha scritto Slavoj Žižek, “funziona come una superficie vuota, una specie di schermo per la proiezione del desiderio,” l’ambito cinematografico risulta più sensibile alla registrazione del proibito, in quanto campo non velato dello sguardo, della visione. Non a caso, la castissima scena incriminata di Teorema non includeva nessuna delle smisurate erezioni che si possono invece incontrare nella scrittura dei romanzi citati in apertura. Per rendere conto delle falloforie letterarie è forse utile un’immagine evocata da Lacan nel Seminario XI, quella di un tatuaggio disegnato sul pene che assume, solo con l’erezione, la sua forma pienamente sviluppata. Il segno, la scrittura, si è sviluppata sin dalle origini nell’erezione, nel dominio di un logos fallico, contro il quale sono nati tutti i brillanti tentativi, soprattutto in ambito lesbico e femminista, di destrutturazione creativa del fallologocentrismo (si pensi alle esperienze straordinarie di Monique Wittig e Hélène Cixous). Ma per quale ragione, viene da chiedersi, proprio la rappresentazione erotica del sesso virile è spesso incappata – per dirla con Bataille – nell’interdizione? Forse perché anche il modello eterosessuale maschile è costruito attraverso proibizioni, prima tra tutte la proibizione di provare piacere attraverso la visione del pene eretto, qualcosa che nella logica psichica del potere può coincidere solo con la pulsione omosessuale. Il realtà, il desiderio maschile, trova il proprio piacere non solo, o non tanto, nel corpo femminile, che la costruzione industriale dell’immaginario pornografico etero ha così capillarmente codificato, ma anche nell’immagine del proprio sesso. Corrobora questa idea anche un volume recente, una raccolta di sette racconti erotici curata da Gianni Biondillo per i tipi di Guanda, Pene d’amore. L’idea di quest’antologia è di “restituire dignità all’immaginario erotico maschile”, rivendicando anche per il “sesso maschio” (sic) il medesimo spazio che secondo il curatore avrebbe assunto la letteratura erotica femminile, dove l’uomo – al pari che nell’iconografia pornografica – “è acefalo”, non esposto “nelle sue debolezze”, nella sua psicologia. I racconti presentati sono a dire il vero piuttosto deludenti, ma questo Pene d’amore qualcosa rivela e proprio a partire dal titolo che, nel dichiarato giochetto tra singolare e plurale, ci mostra come non sia un desiderio frustrato il tema della raccolta ma – più prosaicamente – l’organo maschile e la sua celebrazione. Anzi, per citare il bel metaracconto di Tiziano Scarpa, forse l’unico gioiellino (di famiglia) della raccolta, il protagonista indiscusso di questi racconti è un cardiopene. Un cazzo con attaccato un cuore, un essere autonomo, come già avveniva nel meno riuscito dei romanzi di Moravia, Io e lui, che attraverso il filtro di un’ironia tutta borghese, raccontava i dialoghi tra un uomo e il proprio esuberante attributo. Cruda com’è, credo che per questa via si arrivi per grosse approssimazioni ad uno almeno degli aspetti del desiderio maschile, quello di un’estetica del piacere fallico. Non è allora irrilevante che proprio la protagonista femminile del primo e fortunato romanzo di Scarpa, Gli occhi sulla graticola (1996), si guadagni da vivere disegnando le parti sessuali censurate nei fumetti erotici giapponesi, in un vero e proprio recupero certosino dell’interdetto. E ancor meno irrilevanti sono le preoccupazioni di Bruno, uno dei protagonisti di Le particelle elementari (1998) di Houellebecq, masturbatore cronico ossessionato dalle sue poco soddisfacenti dimensioni anatomiche, al pari dello straordinario personaggio creato nel suo ciclo di body-bildungsroman da Walter Siti, forse lo scrittore che sta maggiormente destrutturando l’immaginario maschile e omosessuale in Italia. Se esistono modelli di desiderio maschile, questi desideri passano anche attraverso un immaginario, un’estetica fallica rinvenibile ampiamente non solo nella cyber sfera e nell’industria pornografica, ma anche in letteratura. Basti pensare al famoso Appunto 55, Il pratone della Casilina, contenuto nel romanzo incompiuto di Pasolini, Petrolio (1992). In questo appunto, il protagonista della vicenda, trasformato in donna, si fa possedere da venti ragazzi, di ognuno dei quali descrive con precisione minuziosa e stupita l’organo sessuale, quasi si trattasse di un miracolo, un ricongiungimento cosmico. Non è un caso che queste epifanie falliche avvengano nel momento in cui il protagonista, che ha mantenuto la sua identità maschile, si ritrova in un corpo che manca proprio dell’oggetto del suo desiderio. Si potrebbe a questo punto tentare di avventurarsi nella distinzione freudiano-lacaniana tra pene e fallo, dove quest’ultimo è l’estremo oggetto del desiderio che abbiamo perso e che cerchiamo continuamente senza mai averlo veramente posseduto. Il fallo come significante della mancanza, insomma, indice di un desiderio che non può essere soddisfatto. Sono distinzioni utili, certo, ma come ha notato giustamente Judith Butler, il fallo non sarebbe nulla senza il pene, e la sua identità comprende quest’ultimo, nonostante la parte anatomica non sia mai commensurabile al fallo stesso. Se la “destituzione del simbolico egemonico della differenza sessuale” e la “liberazione critica di schemi immaginari alternativi” sono anche l’obiettivo di chi si propone di indagare il “continente nero” del desiderio maschile, per ribaltare l’espressione di Freud a proposito dell’universo femminile, occorre forse fare un passo indietro e – senza mai abbandonare il piano della critica e della denuncia – considerare il pene non solo come uno strumento di potere fallocratico e di violenza ma anche come un organo di desiderio e di piacere, piacere che appartiene prima di tutto – ma non solo – alle più intime fantasie dell’uomo. È infatti la qualità sovversiva del piacere, l’espressione libera del proprio desiderio, ciò che non può tollerare il potere che pretende di regolamentare i nostri corpi e le nostre vite. È qualcosa che avviene anche attraverso la censura del corpo maschile e la costruzione capillare di un’immagine dell’uomo: quella di una virilità indifferente, rapace, violenta, “il celodurismo” acriticamente assunto da molti, contro il quale non si può non abbassare la guardia. Non per nulla, è proprio questo tipo di virilità a risultare “indifferente e perfino sconosciuta” al protagonista iper-priapico delle trenta pagine “pornografiche e controrivoluzionarie” del Paradiso di Lezama Lima: un canto non di violenza ma di piacere.

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La nonviolenza non è una cosa da duri. Articolo per Liberazione

Alessia Acquistapace – laboratorio Smaschieramenti

Liberazione 22 agosto 2008

 

Viviamo in un’epoca in cui ci rubano le parole. Nel nostro paese, fischiare un politico è diventata una ‘violenza inaccettabile’, proprio mentre le guerre si chiamano missioni di pace. Il paradosso è tutt’altro che divertente. Si è affermata, purtroppo non solo a destra, l’idea per cui una protesta è violenta se è illegale o fastidiosa, mentre sarebbe "nonviolenta" se è disciplinata, garbata, opportuna.

Eppure la parola nonviolenza ha un significato preciso e la sua storia è piena di azioni illegali e disdicevoli – neri seduti accanto ai bianchi nei ristoranti, giovani maschi che rifiutano di prestare il servizio militare obbligatorio…

Fu il movimento che si preparava, ancora lontano dai riflettori, al G8 di Genova, a parlare di nonviolenza, prima che i media si appropriassero di questa parola per restituircela svuotata. Eppure, lo stesso movimento ne ha ratificato lo svuotamento, riproducendolo nei propri discorsi o rinunciando alla parola nonviolenza.

I media chiamano "non violenza" la legalità e l’accettabilità sociale, e su questo confine schierano i buoni di qua, i cattivi di là. Accettando la loro definizione, o comunque riducendo la nonviolenza al veto castrante di non far male a una mosca, alcuni nel movimento l’hanno intesa come una scelta strategica per farsi mettere dalla parte dei buoni – obiettivo peraltro spesso fallito. Altri e altre, forse temendo la castrazione, hanno invece rifiutato la nonviolenza, col triste risultato di un ritorno di militanza virilista.

Ma nella teoria nata da Gandhi e dalle lotte per la liberazione dell’India, la nonviolenza non era affatto un confine che divide un qua e un , bensì qualcosa a cui tendere, ricerca continua; essa non fu mai un’autocensura, e tantomeno un impegno astratto e ideale, bensì uno stimolo all’ideazione di nuove pratiche, alla trasformazione di sé e del mondo. Nonviolenza è la traduzione dall’hindi di Satyagraha, termine che richiama autenticità, coerenza di mezzi e fini. Usare o minacciare violenza a fini ‘pacifici’ non ha senso. Ugualmente non può essere definita nonviolenta un’azione apparentemente pacifica che ha come fine la violenza, l’ingiustizia, il sopruso.

Ci hanno già rubato molte parole chiave. Non possiamo, per paura di essere colti in fallo sul loro binarismo violenti-nonviolenti, rispondere ‘va bene, allora siamo violenti’, o rispolverare l’ambigua distinzione fra la violenza degli oppressi e degli oppressori. Né d’altra parte possiamo permettere che i telegiornali diventino la nostra coscienza, col paradossale risultato che dopo che a Genova ci hanno sparato addosso, finiamo ad autoflagellarci o scannarci fra noi perché qualcuno dei ‘nostri’ ha lanciato una bottiglietta, dandogli il pretesto per dire che siamo dei violenti.

Il discrimine, per me, non è fra quelli cui è capitato di spintonare un poliziotto e quelli che se ne sono tenuti alla larga, ma fra chi vede in ciò un occasione di ingigantimento del proprio pene e chi no. Fra chi prova a smantellare la cultura della violenza dentro e fuori di sé e chi, al di là delle dichiarazioni, questa cultura continua a coltivarla.

Mi sembrava, nei mesi precedenti il G8 di Genova, che non fosse solo questione di immagine, e circolasse la sensazione che la violenza non poteva funzionare, che ci voleva qualcosa di nuovo. Si usava la fantasia per trovare nuove strade, e il gruppo pink, esperto nel deridere violenza e virilismo, non a caso era protagonista. Ma poi successe l’inimmaginabile, e sotto il martellamento mediatico, alla polemica anche interna di chi era ancora per i metodi violenti, nessuno/a ha saputo formulare una risposta più autentica di quella dell’opportunità, del ‘sennò poi i giornali scrivono….’.

Parlo di Genova, ma intanto mi sembra sia cresciuta una nuova generazione di militanti maschi e femmine che non ha cognizione di tutto ciò, e che vede gli scontri con la polizia come un videogame o un rito di iniziazione.

La scelta della nonviolenza si scontra con il macismo, cioè con il gioco a chi ce l’ha più duro. E non perché, come si dice spesso, la violenza è maschile e la nonviolenza femminile. Su questo equivoco si producono i peggiori paradossi, perché, ad esempio, una donna potrebbe sentircisi a ragione un po’ stretta, e voler rivendicare di essere capace anche lei di fare a botte. Le donne non sono pacifiche per natura. E’ al massimo la nostra storia che ci ha avvicinate, nelle ultime migliaia di anni, alla cura più che all’aggressività. Riappropriarci di questa storia e ridargli valore ci ha restituito la stima di noi stesse e delle nostre nonne. Ma la stessa storia millenaria ci ha viste vittime di violenze sistematiche, cosa che non fa bene e che non rende buone – tutt’altro: le donne sono capaci di violenze sottili ed atroci, verso se stesse e verso gli altri. Ma negli anni ’60 e ’70, riflettendo collettivamente sulle violenze subite ed agite, sull’oppressione iscritta nella loro stessa identità, le donne hanno attuato una decostruzione della violenza fra i generi, che si è rivelata una pratica efficace per liberarsene senza agirla a propria volta. E’ in questo senso che la nonviolenza è affine col femminismo, e non con il femminile, e la violenza con il maschilismo, non con il maschile. E’ una questione di storia e di scelta politica, non di natura, perché donne, gay, lesbiche, se vogliono, sono purtroppo capacissime di fare i maschiacci.

Ultimamente, molte realtà del movimento sentono il bisogno di dichiararsi dalla parte delle donne, dei gay, di assimilare un po’ di lessico da gender studies, ma quasi mai di cambiare le proprie pratiche. Come per la violenza, tutto si riduce a un mettersi dalla parte giusta. I maschilisti sono gli altri, le discriminazioni, il macismo, vanno combattuti sì, ma fuori di noi. E’ un fenomeno strano, che coinvolge le stesse vittime del sessismo, come quando le donne italiane si scandalizzano per l’oppressione delle altre (le arabe) solo per poter dimenticare la propria. Ma la vera urgenza, di fronte all’emergenza virilista, è proprio quella di smaschierarsi, e ritrovare il coraggio di una politica che parta da sé, dalla trasformazione di sé stessi e del mondo.

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Appello per viedoinchiesta sulle relazioni

 

SEI SINGLE? SEI MULTIPLO/A?

SEPARATO/A? DIVORZIATO/A? PROMISCUO/A?

NON HAI FIGLI?

I TUOI COINQUILINI/E SONO DIVENTATI LA TUA FAMIGLIA?

QUANDO IL PRINCIPE AZZURRO TI HA TROVATO SEI CORSA A NASCONDERTI MEGLIO? (O VORRESTI AVERLO FATTO)

LA TUA VITA E’ COMPLICATA?

TI SENTI POCO NORMALE?

 

LABORATORIO SMASCHIERAMENTI

 

 

alla ricerca di nuove forme (esistenti, tentate, desiderate o immaginate) di relazione, affettività, sessualità, famiglia

 

gruppo di discussione, inchiesta, azione e delirio

@ atlantide

piazza di porta santo stefano 6

partecipazione aperta e libera

ci siamo (quasi) ogni mercoledì

per info:

infosmaschieramenti@inventati.org

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Questionario sul desiderio (del) maschile

SMASCHIERAMENTI_QUESTIONARIO_09072008.pdf

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Penetrabile è meglio! Articolo per liberazione.

 

Penetrabile è meglio!

Alessandro Zijno – Laboratorio Smaschieramenti

Liberazione, 22 agosto 2008

 

 

Sostenere che non esistano discriminazioni è il modo più banale di manifestare il proprio razzismo. Ogni serena analisi della nostra società dovrebbe sempre tenere presente la banale constatazione che questo non è il paese delle pari opportunità realizzate. Eppure l’atteggiamento di negare che esistano discriminazioni si sta diffondendo in maniera virale nell’immaginario collettivo. Da sempre più parti si sente il bisogno di manifestare l’idea che tante conquiste sono state ormai realizzate, che in fondo è meglio qui che da tante altre parti (come se la considerazione che c’è qualcuno che sta peggio di noi possa essere confortante). Questo atteggiamento può sorprendere per i motivi più diversi, e sicuramente dovrebbe sorprendere per il fatto di essere trasversale a tutti i settori del tessuto politico e sociale. Ma quello che spesso si evita di notare è che queste posizioni sono di fatto funzionali a, e in quanto tali prodotte da, un molesto clima di normalizzazione. Un clima che si sta diffondendo, un clima che preferisce risolvere, a suo unico beneficio, le tensioni sociali negando o mascherando le differenze e accettando solo chi non si fa notare, chi scompare e si integra in uno scenario normato fin nei minimi particolari: non ti accetto in quanto omosessuale, gay, lesbica o quanto altro, ma se non ti fai notare, se accetti l’ordine costituito, allora posso fare finta di non vederti. Si pensi al clima in cui è maturato l’attacco alle trans del Prenestino a maggio, dove alcuni cittadini del quartiere, alla presenza delle forza dell’ordine, hanno messo in atto una vera e propria "caccia" a un gruppo di trans al grido di "froci di merda" e "ve la faremo vedere". Ma in questo processo di normalizzazione non è solo la comunità LGT nel suo complesso ad essere coinvolta, ma la società stessa nella sua generalità, dalle prostitute ai migranti, dai diversabili a tutte le categorie ritenute non conformi.

 

E’ di questi giorni la notizia di un ragazzo, presunto affiliato mafioso, stuprato in carcere perché ritenuto omosessuale. Il gr2 passa la notizia con il titolo: "Picciotto stuprato in carcere in quanto ritenuto omosessuale perché scrive poesie d’amore". E, dopo aver esplicitato che il ragazzo non è affatto omosessuale, ma soltanto una persona (come il suo avvocato tiene a sottolineare) dai modi leggermente "femminili", il servizio si concentra sul mostrare quanto sia sciocco pensare che un maschio possa essere omosessuale solo per il fatto che scriva poesie d’amore. Ed ecco che l’effetto normalizzazione è realizzato, l’omofobia è cancellata a favore dello smascheramento della falsa connessione poesia/omosessualità. Così chi ascolta la notizia non è portato ad inorridire per l’aggravante omofobica della violenza, non si infastidisce perché ancora non c’è una legge che riconosce l’omofobia e la transfobia come aggravanti, ma al contrario si sente tranquillizzato nel fatto di sentirsi normale, perchè ovviamente non crede, come quei criminali che hanno perpetrato la violenza, che chi scriva poesie d’amore debba essere omosessuale.

 

La tentazione ovviamente, da parte di molti, è quella di considerarsi immuni a questo tipo di messaggi, di pensare di avere ormai sviluppato gli anticorpi per questo tipo di manipolazione. Eppure siamo proprio convinti che sia così? Si prenda per esempio la pressante questione della violenza contro le donne. Questa è stata trattata soprattutto come questione sicurezza e in quanto tale immediatamente legata al fenomeno dell’immigrazione clandestina. Ma, come ribadito con fermezza dalla manifestazione delle femministe e lesbiche del 24 novembre 2007 a Roma e come denunciato settimanalmente dalle colonne della stessa Liberazione, la questione della violenza contro le donne ha poco a che fare con la questione immigrazione, quanto piuttosto ha a che fare con il concetto di famiglia, o meglio con la cultura maschile che questo concetto ha costruito per suo uso e consumo, determinandone i rapporti di forza al proprio interno. Concetto di famiglia unicamente fondato su una presunta dualità sessuale normata secondo uno schema oppositivo in cui un sesso è dominante rispetto all’altro. Concetto di famiglia che non intende riconoscere, se non come devianza, alcun altro tipo di identità o di relazione, in quanto queste ne minerebbero proprio quei rapporti di forza che permettono di perpetrare lo schematismo. Quanti di noi, pur riconoscendo i presupposti e opponendosi formalmente alla normalizzazione, riescono o almeno soltanto tentano di riportare questo impegno all’interno della propria quotidianità, nel proprio piccolo mondo personale e anche all’interno delle proprie pratiche politiche? Quanti si sono interrogati su come il rapporto di forza tra le due identità imposte dalla cultura dominante sia ancora così colpevolmente sbilanciato? O meglio ancora, quanto siamo stati capaci di riportare queste riflessioni all’interno del nostro agire, all’interno dei nostri rapporti relazionali? Insomma, quanto siamo disposti ad ammettere che c’è qualcosa nella cultura maschile che non funziona? Quanti maschi, che pur si considerano di sinistra, progressisti, democratici, quand’anche femministi sono pronti a mettere in discussione la propria cultura maschile e riconoscere la disparità di potere culturale e una strategia di dominio di un genere sugli altri? Quanti sono disposti a considerare, per esempio, il reddito della propria compagna come principale e non semplicemente ausiliario alla gestione familiare? Quanti sarebbero pronti ad essere economicamente dipendenti senza per questo sentire sminuire la propria identità di genere? D’altra parte la prima strategia con cui la cultura dominante perpetua se stessa è proprio quella di non riconoscere altri sessi oltre ai due culturalmente imposti, relegando il pur statisticamente rilevante fenomeno dell’intersessualità a mera patologia o stramberia della natura e in quanto tale medicalizzato, nascosto e chirurgicamente e ormonalmente aggiustato. Quanti tra gli etero e non solo, per esempio, sono disposti a dimostrare, e non a parole, ma nei fatti, nelle pratiche e nel modo di apparire, nell’educazione impartita ai figli per mezzo dell’emulazione che il loro essere maschio rifugge ogni tentativo di virilismo, di ricorso alla legge del più forte, declinata nelle sue diverse forme: da quella brutalmente fisica a quella economica, passando per quella psicologica e per quella verbale?

Ed è proprio questo mancato riconoscimento nei fatti, nella quotidianità politica e privata, di questa disparità, di questa smania normativa e normalizzante che tende ad annullare tutto ciò che è strano, freak, queer (e purtroppo nessun segnale di smentita giunge oggi dalla comunità dei maschi) che spinge a segnalare che quella che è stata chiamata emergenza sicurezza è in realtà un’emergenza virilista, perché la sicurezza dell’individuo non è data e non può essere realizzata attraverso una militarizzazione della società, cosa che di fatto rinforza la cultura virilista stessa (perchè il fine non può giustificare i mezzi, ma sono i mezzi che devono esprimere il fine). Perchè la sicurezza degli individui può essere raggiunta solo attraverso una decostruzione e una messa in condizioni di non nuocere della cultura macista, della cultura del più forte, della cultura della sopraffazione in qualsiasi forma, luogo o momento si manifesti. Perchè non ci può essere sicurezza finché ci sarà in giro una cultura che premia atteggiamenti aggressivi e prepotenti, che connota positivamente l’astuzia e la furberia. Perché non ci può essere sicurezza finchè non si ammette, come sottolinea Adriano Sofri su la Repubblica del 21 giugno, che "… lo stupro delle donne non è solo un’arma delle guerre fra uomini, ma è l’arma simbolicamente decisiva della universale guerra degli uomini contro le donne, e che stupro e assassinio di donne in tempo di pace sono una forma di addestramento militare e di caparra privata sulla guerra generale".

E questa guerra generale è combattuta considerando i corpi delle armi, dove tutte le proprietà penetranti pertengono al corpo maschile, mentre quelle penetrabili al corpo femminile. Ma perché il maschile coincide con l’impenetrabilità? Quale altro vantaggio "adattivo" nasconde questo costrutto culturale se non l’idea stessa di dominio di una classe di individui sulle altre? Il maschile è reso impenetrabile, corpo compatto, chiuso, proteso ariete alla conquista degli altri corpi, mentre il femminile si fa morbido, penetrabile, conquistabile. Ma, esattamente come l’ostracizzazione dell’orgasmo clitorideo è stata strumento di controllo sui corpi delle donne, almeno prima della rivoluzione femminista dei Settanta, allo stesso modo, quanto è più forte la cultura virilista, tanto è più forte il tabù dell’orgasmo anale maschile. Quanti maschi, in questa società, sono disposti ad ammettere pubblicamente che la penetrazione anale maschile può essere piacevole? Quanti sono minimamente disposti anche semplicemente a pensarsi penetrabili senza sentire la propria identità maschile messa a repentaglio? Del resto la nostra società stigmatizza la penetrabilità maschile legandola a doppio nodo con l’omosessualità (altro marchio tipicamente usato come infamia nelle società viriliste), escludendo violentemente due modalità di essere uomini non allineate al modello dominante, perchè d’altronde essere penetrabili non implica essere omosessuali e viceversa. Così la penetrabilità potrebbe, invece, essere uno dei punti di partenza di una riflessione maschile che conduca a riappropriarsi del proprio corpo liberandolo dal controllo imposto dal macismo.

Tutte queste ragioni hanno spinto i partecipanti al Laboratorio Smaschieramenti a mettersi in discussione per cercare di costruire una idea alternativa del maschile che non rifiuti la dipendenza, la penetrabilità e la morbidezza. Perchè questo non è il momento di rinchiudersi nel privato, di nascondersi nelle pieghe delle società, di cedere all’ingannevole, benché allettante, richiamo alla normalizzazione. Questo è, invece, il momento di puntare i piedi, di fare argine, di smarcarsi e di schierarsi di fronte ad un virilismo sempre più prepotente. Questo è il momento di manifestare un nuovo posizionamento e rivendicare la propria peculirità di fronte all’immagine opprimente e totalizzante del maschile, rivendicando con orgoglio il proprio essere stonato all’interno di un coro che vorrebbe tutti riducibili ad un unico modello. Questo è il momento per tutti quei maschi che non si riconoscono nella figura virilista dominante, che non sentono propri i valori della forza, della sopraffazione, dell’aggressività, dell’impenetrabilità, che non credono in un mondo diviso in due, che non credono che tutto debba essere normato e normalizzato di alzare la testa, di farsi vedere, di prendere coscienza e parola, di diventare sempre più visibili, perché se non lo faranno ora, non avranno più la possibilità di vivere la loro vita come se la sentono addosso e non come altri vogliono che la vivano. Pensateci.

 

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A grande richiesta… il questionario è on line!

Qui >>>> SMASCHIERAMENTI_QUESTIONARIO_09072008.pdf  trovate il .pdf di Smaschierati anche tu!, il questionario sul desiderio (del) maschile diffuso dal Laboratorio Smaschieramenti negli spazi sociali bolognesi.

Potete compilarlo da soli nella vostra cameretta, o insieme agli amici e alle amiche, o somministrarlo ai vostri conoscenti per il vostro personale e perverso piacere e per la vostra libera riflessione…

Se invece intendete utilizzarlo in iniziative pubbliche, per favore contattateci: infosmaschieramenti@inventati.org 

Buona compilazione!

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