Tre giorni contro la repressione, la normalizzazione e le nuove forme di disciplinamento dei corpi.
Bologna, 10-12 ottobre 2008.
Immaginario familista, ruolizzazione sociale/sessuale, relazioni. Sabato pomeriggio.
Interveto di Elena Biagini + Intervento di Renato Busarello per Antagonismogay
Il mimetismo esasperato dall’ansia di normalizzazione ha fatto sì che riproducessimo in ambito lgbtiq l’immaginario familista e sessista della famiglia etero. Oggi che in piena liquidazione del welfare tutto il lavoro di cura e assistenziale sembra tornare sulle spalle delle donne, ricacciate tra le mura domestiche, è più che mai necessario rielaborare una critica alla famiglia come luogo di violenza femminicida lesbo/trans/omofobica di riproduzione dell’eterosessualità obbligatoria e di asservimento del genere femminile.
Il familismo e la marcata ruolizzazione di genere, con quanto si portano dietro di omofobia e violenza sulle donne, sono elemento caratteristici della “cultura” tradizionale non solo dell’Italia ma di tutta l’area mediterranea, ne abbiamo elementi culturali ridondanti per affermarlo, riferimenti scientifici noti, quasi scontati che vanno da quelli storici, concetto di famiglia elaborato nella cultura e nel diritto latini (Cantarella), in cui la stessa parola familia deriva da una radice che è usata anche per i servi e in cui il capofamiglia ha diritto di vita e di morte su moglie e prole, a quelli sociologici (Saraceno) a quelli di storia economica (modello dell’impresa familiare come caratteristico della III Italia, vedi Ginsbourg). Per non soffermarsi inutilmente, tanto il fatto è noto sul concetto giudaico cristiano di famiglia e ancor più cattolico secondo il quale alle donne è imposta l’obbedienza al marito, ai figli e alle figlie al padre, ai servi al padrone.
Qui vogliamo elaborare un’analisi attuale e che veda le soggettività eccentriche alla famiglia stessa come analizzatori, quindi che metta al centro del discorso il sessismo e l’eterosessualità obbligatoria, quello che possiamo definire eterosistema.
Un’analisi attuale ci obbliga a analizzare il familismo nell’ambito di un sistema neoliberista che, per quanto in crisi in questi giorni, è tuttora il sistema dominante sebbene fatiscente.
Il neoliberismo è un sistema che come è noto si basa sull’egemonia del mercato sulla politica e sulla società e che ha quindi tra i suoi fondamenti la riduzione in merce di tutti i servizi che quindi devono essere privatizzati e venduti per chi ha denaro per comprarli, semplicemente scomparire per chi non ha potere d’acquisto. L’ideologia neoliberista ha lavorato e lavora per la distruzione dello stato sociale, di tutte le garanzie che un sistema di welfare, sebbene moderatamente keynesiano, aveva costruito, per quanto riguarda l’Italia, lo smantellamento delle conquiste di diritti sociali frutto delle lotte degli anni ’60 e ’70, scuola e sanità pubbliche, statuto dei lavoratori, pensione pubblica, garanzie per la maternità.
La globalizzazione neoliberista per molti anni, qui come altrove, è stata spacciata come il nuovo, collegata nell’immaginario collettivo ad internet, ai media etc etc. Ma nel nostro paese l’imposizione del neoliberismo ha proceduto parallelamente ad elementi del tutto arcaici: il familismo e le politiche familiste. Più volte FB e una parte consistente del movimento lgbt in questi anni ha analizzato il modello del nord est come laboratorio per politiche di destra poi realizzate in tutto il paese. Questo modello dal punto di vista economico si basa sulla piccola impresa a conduzione familiare, dove i dipendenti sono prioritariamente moglie e figli/e di un padre padrone, si tratta quindi di una forza lavoro che non ha garanzie e non è sindacalizzata. Questo modello inizialmente legato all’area del nord est oggi, dopo che la parcellizzazione del lavoro è ormai avvenuta, la precarizzazione ha investito tutte le generazioni under 40 e la delocalizzazione ha aumentato la disoccupazione e lo sfruttamento, la mancanza di garanzie sociali è divenuta una condizione generalizzata. Nel modello sociale italiano lo stato sociale più ancora che dalle multinazionali dei servizi è stato sostituito da una forma di parziale ritorno all’antico, con il lavoro di cura che torna ad essere addossato in particolare alle donne e la famiglia che resta – ed anzi è stata potenziata – soggetto prioritario del diritto, a discapito, anzitutto dell’autodeterminazione degli individui e degli stili di vita. Anche perché la famiglia, grazie anche all’ideologia cattolica proposta/imposta dalle gerarchie vaticane e supportata pienamente da una classe politica prima succube poi connivente, non è una fotografia sociologica dei legami di cura e solidarietà reciproca esistenti, ma un sistema ideologico che è la base un modello fortemente patriarcale e , a sua volta su questo è basata.
La famiglia è alla base del patriarcato tanto che è il luogo dove comincia e viene commesso il maggior numero di violenze maschili sulle donne, violenze che rappresentano ancora oggi lo strumento più potente di subordinazione delle donne. La precarietà economica, imposta dal sistema neoliberista, ci risospinge dentro la famiglia tutte e tutti a causa della mancanza di garanzie sociali, anche quelle soggettività eccentriche, lesbiche, gay, trans, donne autodeterminate che trovano necessariamente i propri percorsi di liberazione proprio a partire dall’uscita della famiglia d’origine e dal rifiuto del paradigma familista e patriarcale.
La precarizzazione ci risospinge nella famiglia e nella scelta della vita in coppia sia per motivi di sopravvivenza economica sia per la sottrazione di tempi dell’esistenza che sono il tempo della socializzazione, quindi delle relazioni tra soggettività che si scelgono.
La famiglia, che attraverso l’ideologia familista diviene una vera e propria gabbia, è, abbiamo visto, il luogo della violenza che uccide milioni di donne, le brutalizza, le rende “vittime”. Ma la famiglia sappiamo anche essere l’ostacolo più grande e violento ai percorsi di liberazione di lesbiche, gay e trans: attraverso un’educazione che tende a riaffermare il modello patriarcale e la conseguente ruolizzazione di genere, attraverso violenze psicologiche e fisiche che impediscono la realizzazione della personalità a chi “tradisce” le aspettative (quante e quanti di noi ricordano l’adolescenza, quindi una fase della vita caratterizzata da minorità giuridica e dipendenza economica, come il momento più difficile, spesso violento rendono superflui studi sociologici e psicologici che comunque non mancano a conferma di questo), attraverso il senso di colpa, meccanismo innestato profondamente nella cultura cattolica che rende noi stesse portatrici di ciò che gli psicologi chiamano omofobia interiorizzata ma che in sostanza è l’incapacità di molte e molti di noi, ancora sepolti/e nelle belle famiglie italiane, di vivere la propria vita.
In questi ultimi vent’anni ritengo che per assurdo anche il movimento LGBT abbia contribuito a rinforzare la retorica della famiglia così come parallelamente le politiche delle pari opportunità, assunte da gran parte del movimento delle donne, hanno minato la radicalità del discorso femminista. Il fermarsi per molti anni della parte più visibile del movimento sulla tematiche delle unioni civili ha fatto sì che esponenti lgbt abbia fatto propria, non so con quanta consapevolezza la retorica della famiglia come luogo primario degli affetti, della cura e della solidarietà, contribuendo al grande imbroglio ideologico che tende a far dimenticare che la famiglia è una costruzione sociale e come tale mutabile nel tempo e che quella che oggi viene decantata è in parte inesistente in parte rispondente ad un modello patriarcale che produce violenza ed esclusione sociale.
Il fulcro da cui non dobbiamo e non possiamo allontanarci è la forte connessione non solo tra patriarcato e famiglia ma anche tra famiglia e eterosessualità obbligatoria, un sistema che possiamo definire eterosessista oltre che patriarcale per la necessità di sottolineare che alla base dell’oppressione non solo di lesbiche, gay e trans ma di tutte le donne c’è la centralità sociale ed economica del contratto eterosessuale, infatti l’eterosessualità viene costruita e presentata come opzione primaria, giusta, unica e naturale e la famiglia è il suo alveo, il suo ambito di realizzazione. Dal sesso è stato per questo bandito tutto ciò che esce dall’imperativo dell’eterosessualità. Questo è ciò che chiamiamo eterosessualità obbligatoria o meglio regime dell’eterosessualità.
Si deduce, a mio avviso, da tutto ciò che la lotta contro l’eterosessualità obbligatoria, come paradigma culturale egemonico con evidenti ed ineludibili conseguenze politiche e sociali è strettamente legata alla critica alla famiglia, allo svelamento dell’ideologia sottesa e alla lotta al familismo.
Per lo specifico lesbico a tutto ciò si lega fortemente la critica alla maternità obbligatoria e l’attenzione al rischio del controllo sui corpi delle donne e delle lesbiche attraverso le biotecnologie. Gli eventi politici degli ultimi anni, le campagne fortemente integraliste che hanno prodotto risultati palesi come la legge 40 (di cui non possiamo stancarci di chiedere la cancellazione) e la continua rimessa in discussione della legge 194 e dell’ autodeterminazione delle donne più in generale, rischiano di tirare lesbiche e femministe in lotte di retroguardia.
D’altro canto la perenne battaglia civile per il pacs/unioni civili/dico/cus è stata condotta attraverso la pratica della pacca sulla spalla con i partiti del centro–sinistra che, non sentendosi pressati – e subendo invece pressioni, niente affatto mediate, dalle gerarchie vaticane – non hanno avvertito l’urgenza di spingerla e questo è un argomento che per noi dovrebbe essere prioritario, la rimessa in discussione delle pratiche. Ma soprattutto, intervenendo a livello istituzionale e mediatico quasi unicamente per questo obiettivo, il movimento lgbt, invece di scardinare la gabbia familista, di sottolineare che la famiglia nasconde al suo interno violenza e sopraffazione su donne, lesbiche, gay e trans e che comunque è una costruzione culturale e, in quanto tale, può cambiare e addirittura essere distrutta, ha finito per contribuire a rafforzare la retorica familista di cui gronda la cultura nazionale (e d’oltretevere). Perché? Per non spaventare. Senza accorgerci che spaventiamo lo stesso, solo che la diversità “mostruosa” che rappresentiamo, oltre a scatenare la violenza omo/lesbo/transfobica, non ci assomiglia e non produce trasformazione sociale né culturale: abbiamo contribuito a “spostare a destra” la soglia della “normalità”. E uso la prima persona plurale perché finché un’altra proposta non sarà visibile, questa sarà La Proposta del movimento lgbt. Movimento che ha del tutto trascurato, negli ultimi vent’anni almeno, il piano della proposta culturale, della progettualità trasformativa che possa davvero includere percorsi di liberazione che in concreto accrescano la sostenibilità delle nostre vite. Certo che nel niente culturale, politico e sociale ci attacchiamo anche a proposte calmierate e spesso poco dignitose che arrivano fino ai dicorè, quando le nostre compagne malate sono ringabbiate nella famiglia e noi non abbiamo nemmeno il diritto di parlare con un medico e se questo ci parla ringraziamo, quando chi di noi non ha famiglia cade e cade senza rete fino a rimetterci la vita ( e so che sapete che queste non sono ipotesi), quando subiamo funerali e dissipazioni dei nostri ricordi ad opera di famiglie che non sono mai stati luoghi di cura e solidarietà etc etc. Ma non è scritto in un inesistente diritto naturale che l’unica soluzione è la famiglia e che per noi quindi l’unica soluzione sarebbe l’ingresso nel mondo dei e delle privilegiati a discapito di altri/e e a discapito della nostra “anormalità, del nostro sguardo obliquo, della nostra felicità.
Quel mondo del privilegio, lo sappiamo, è una società patriarcale, classista, razzista, violenta, clericale e familista. E’ un modello sociale dove, ad esempio, la cittadinanza è basata sul sangue, dove si può diventare e restare cittadini/e italiani/e, vivendo all’estero, avendo avuto un solo nonno italiano o, in alcuni casi, un antenato anche più lontano ma al contrario, per gli/le immigrati/e è difficile diventare cittadini/e del nostro paese, anche se sono nati qui ma da genitori stranieri, anche se abitano e lavorano qui. La cittadinanza italiana è un affare di famiglia. [Giovanna Zincone, Familismo legale. Come (non) diventare italiani].
E’ comunque un modello dove molte delle nostre relazioni realmente di cura e di solidarietà non possono essere incluse perché non sono modellate sul paradigma patriarcale della coppia.
Senza dubbio dobbiamo elaborare forme di resistenza collettiva, nella prospettiva di passare dalla resistenza alla liberazione, che rafforzino le esistenze individuali, evidenziando l’importanza di cercare percorsi politici che rendano più forti i percorsi personali. E tutto ciò non riguarda solo lesbiche, gay e trans ma chiunque si ponga fuori dal paradigma patriarcale e familista le femministe in primo luogo, che come abbiamo discusso in un tavolo di FLAT si trovano nella stessa situazione delle lesbiche sia nel rapporto di oppressione, pregno di contraddizioni, con la famiglia d’origine sia nella necessità e nel desiderio di relazioni di cura, solidarietà e piacere da istaurare tra femministe e lesbiche.
Chiudo leggendo un brano di un articolo di Betzy Brown, una lesbica radicale tratto da Lesbian Contradiction, (periodico femminista e lesbico di San Francisco) “La Sfamiglia”.
[…] ciò che voglio è una sorta di sfamiglia. Voglio far parte di un gruppo di amiche speciali
Di Renato Busarello per Antagonismogay.
Condivido integralmente quanto sinteticamente esposto da Elena e voglio partire da alcuni suoi passaggi e interrogativi per agganciare il mio contributo.
Parto da quella affermazione forte che ci chiama in causa: finché un’altra proposta non sarà visibile, questa (la riproduzione mimetica della famiglia) sarà La Proposta del movimento lgbt.
1. Linguaggio.
Se non vogliamo perdere il nostro sguardo obliquo (queer) e venire ricatturati nella linea retta (straight) non possiamo assumere il linguaggio, il discorso e le strutture eteronormative. Come se le parole fossero neutre e il fatto di dire “famiglie” al plurale bastasse a esorcizzarne la carica di disciplinamento e violenza implicita: è mancata tra le altre cose al movimento lgbtiq una riflessione seria sulla periperformatività del linguaggio, sulla sua dimensione produttiva di soggettività, su quanto il linguaggio ci orienti anche sessualmente
(Austin, Eve Sedgwick, Ahmed)
Rubo a Sarah Ahmed ( e alle credo cruciali riflessioni dell’ultimo seminario di Prato) un esempio. La famiglia a tavola e tutti a dire al bambino piccolo: “che bel bimbo, è tutto suo padre”. Il che vuol dire sarà un uomo, sarà etero, sarà padre. In una piccola innocente frase un soggetto, una storia, un destino. Le parole ci orientano, gli oggetti ci orientano anche sessualmente fin da piccoli e prima di nascere.
Torno alla assunzione del linguaggio familista da parte del movimento lgbtq: La rivendicazione di uguaglianza per le coppie gl è presto slittata da un piano di mimetismo tattico o strategico a un piano normativo. Dal “ci sono anche le coppie gl e non si vede perché non debbano avere gli stessi diritti”, allo stigmatizzare apertamente ogni altra forma di sessualità/ desiderio/ affetto come frutto della repressione (salvo poi ipocritamente campare sui soldi delle dark e delle saune..)
(Per inciso un altro tema da ribaltare sarebbe quello dell’affetto: oltre/contro la retorica degli affetti famigliari che ha contagiato la scena queer, dobbiamo rimettere in gioco una politica/etica degli affetti che riguarda le nostre molteplici affezioni in una prospettiva materialista e corporea.)
Il risultato di questa rivendicazione di ripettabilità della coppia è stato non solo di rafforzare la famiglia, ma di creare uno spazio di abiezione dentro lo spazio queer, dove si colloca chi resiste a questa forma di normalizzazione.
Quante volte ci siamo sentiti dire in questi anni, ai tentativi di antagonismogay e altre/i di mettere in discussione i matrimoni, pacs ecc.., e con essi il movimento gl come agenzia normativa, che siamo dei nostalgici degli anni 70, del vespasiano e del cespuglio…Come se si trattasse di andare avanti o tornare al passato (sempre la temporalità patri-lineare)
2.Spazio di soggettivazione lgbtiq e teoria del potere.
Lasciando perdere questa rappresentazione ingenuamente “progressista” della genealogia glbtiq torno alla questione della nostra incapacità di rappresentare un immaginario altro e di porre le questioni centrali:
Come deviano queste nostre linee oblique-queer di soggettivazione su cui siamo, dalla linea retta (straight) della famiglia dell’alleanza, della parentela, della trasmissione del nome, della proprietà? In quale tempo/spazio supplementare, adiacente a quello lineare-familista si costituisce la soggettività lgbtiq? (in a queer time and space, J. Halberstham).
Ne La volontà di sapere, Michel Foucault riconosce che in ogni società le relazioni sessuali danno luogo a forme stabilizzate di matrimonio, parentela e trasmissione dei nomi e dei beni. Inoltre distingue da questo dispositivo di lungo periodo, che regola i rapporti tra i partner sessuali, si occupa di sessualità riproduttiva e la regola (lasciando sullo sfondo del contronatura tutto il resto) un nuovo dispositivo di potere, il dispositivo di sessualità, che incita, insegue, insedia e intensifica i piaceri anormali. E’ espansivo, produttivo e agganciandosi sempre sulle istituzioni disciplinari (famiglia), mette fuori gioco il dispositivo di alleanza.
Tuttavia il dispositivo di alleanza, che possiamo più o meno identificare con le strutture familiari-patriarcali, continua incessantemente a riprodursi e intrecciarsi con il nuovo paradigma.
E’ dentro/contro al dispositivo di sessualità che si produce la proliferazione delle soggettività glbtq, la moltiplicazione e incorporazione dei generi, la sperimentazione di nuove configurazioni della soggettività in un gioco di ribaltamenti e controsoggettivazioni. E’ lo spazio abitato dalle soggettività glbtq, ma anche dalle soggettività femministe e di maschi etero sganciate dal paradigma dell’alleanza/famiglia.
E’ in questo spazio biopolitico (così Giorgio è contento) che si affermano, in un incessante interazione con il reticolo di biopoteri nuove forme di vita, relazione, affetto che oggi giungono potenzialmente a configurare nuove forme di parentela e di alleanza non patriarcali.
Al di là della breve lezioncina, mi interessa sottolineare che lo spazio, la posizione di soggetto, che abitiamo non è affatto un fuori rispetto al potere patriarcale: lo contesta, lo disloca, si costituisce in antagonismo, controsoggettivazione, ma si riarticola incessantemente sulla famiglia, sul mercato, e la famiglia (e lo spazio disciplinare) e il mercato a loro volta si ridislocano per ricatturarlo. Inutile che vi ricordi qui la parabola della soggettività omosessuale che da termine medico ritagliato da un generico contronatura designa una pratica sessuale anormale e patologica, poi un soggetto con una storia un vissuto, una nuova specie (una sineddoche, una parte per il tutto direbbe Parinetto) e infine un soggetto pericoloso. E’ questo soggetto che assume su di sé lo stigma, si controsoggettiva, ribalta e rivendica positivamente i caratteri che la scienza medica gli attribuisce e rivendica i suoi diritti la sua alterità o anche la sua normalità. E’ questo soggetto che si presenta e prende parola al congresso di sessuologia di Sanremo nel 72, per interrompere il discorso del potere che lo parla. E’ questo soggetto infine che, trovato il suo ghetto di socialità mercificata, chiede finalmente di essere integrato e normalizzato. (ecco in sintesi the rise and fall of gay culture).Allora forse, se siamo a questo punto, ci è sfuggito qualcosa e non ci siamo chiesti con quale meccanica questo dispositivo (di sessualità) si interseca con quello di alleanza (famiglia)? In quale modo il nostro spazio-tempo queer si articola con quello patrilineare.
Perché se vogliamo ridefinire delle linee di sovversione-sottrazione-fuga, non possiamo più ingenuamente pensare che il solo fatto di essere lgbtiq sia sovversivo. Semmai ci assegna un potenziale, un gradiente di sovversione e trasformazione che possiamo o meno agire e dispiegare.
Sarah Ahmed (fenomenologia queer) ci propone la metafora del “sentiero ben calpestato”: è il sentiero visibile, già segnato, ma solo perché è stato ripetutamente percorso, che ognuno è portato “naturalmente” a percorrere.
Perché sappiamo bene che il genere è performativo è il risultato della ripetizione di atti, gesti ecc. che producono un effetto di realtà, di superficie, sul nostro corpo (Butler).
Ma che succede se io traccio con le mie orme un altro sentiero? Una linea obliqua? Questa può intersecarsi in qualche punto ancora con il sentiero ben calpestato. Può essere ricalpestata da altre/i e diventare un nuovo sentiero..
La questione diventa in altre parole: su quale piano di consistenza si incontrano le linee di fuga oblique queer individuali? Perché, ci diceva Elena, finché un’altra proposta non sarà visibile, questa (la riproduzione mimetica della famiglia) sarà La Proposta del movimento lgbt.
E non è un problema solo di leggibilità politica delle nostre rivendicazioni, è un problema ontologico.
Abbiamo un altro immaginario, costituiamo altre forme di vita-relazione-affetto? Credo/iamo di sì. Solo che a volte non le nominiamo, o le nominiamo nel linguaggio della norma, presi come siamo a inseguire sempre il discorso normativo, anche per contestarlo, ma sempre in dipendenza da esso.
3. from the cradle to the grave: patriarcato liberale e famiglia patriarcale.
La crisi del welfare, frutto delle lotte del primo movimento operaio e del secondo, di quello femminista ecc. riconsegna il compito di accompagnarci dalla culla alla tomba alla famiglia.
Elena ha toccato questioni molto forti, i vissuti con cui drammaticamente ci confrontiamo: malattia, morte, momenti in cui ci rendiamo conto che tutto quello per cui abbiamo lottato ci viene sottratto. In cui siamo ricondotti/e totalmente alla famiglia di origine o in cui non troviamo altre reti e relazioni alternative a quelle da cui tentiamo di sottrarci. Dov’è la “comunità” queer quando mi ammalo? Dov’è quando una trans viene sepolta vestita da uomo dai suoi cari? Dov’è quando non ho lavoro, non ho casa? Dov’è quando crepo e anche la traccia del mio vissuto queer viene cancellata e resto nella microstoria orale della famiglia come lo zio un po’ matto, un po’ strano, che poveretto ha fatto una brutta fine, ma è meglio non parlarne per non turbare i nipotini?
4. Alternative
provo a dare sostanza a quello che Elena delinea molto precisamente come una:
“progettualità trasformativa che possa davvero includere percorsi di liberazione che in concreto accrescano la sostenibilità delle nostre vite.”(grassetto mio)
Sicuramente il reddito di autodeterminazione ( di cui credo ci parlino le a-matrix) è una delle lotte da assumere. Nella prospettiva qui delineata ha numerosi vantaggi:
-risponde al collasso del welfare, ma al tempo stesso ci permette di sottrarci alla famiglia. E senza chiedere più stato, ma più reddito (quindi intervenendo anche sul tema della redistribuzione di plusvalore).
Migliora concretamente la sostenibilità delle nostre vite individuali e allo stesso tempo richiede un percorso collettivo di rivendicazione. In questo momento di crisi potrebbe anche suonare assurdo pensare di chiedere reddito: ma perché invece non ci sembra assurdo che i soldi pubblici per salvare le banche si trovino?
Nel frattempo, per sostenere le resistenze individuali e questa e altre lotte collettive, va veramente pensato a fondo un neomutualismo queer.
Ora vi risparmio un approfondimento su questo terreno.
Dove è finito però quell’appuntamento che ci siamo dati/e al seminario trans di maggio per ripensare delle forme di auto aiuto “comunitario”, casse di resistenza ecc..
Il temine comunità lo metto tra virgolette perché è a sua volta problematico e rimanda alle derive del comunitarismo identitario..anche qui occorre innovare il linguaggio. Parlo provvisoriamente di comunità queer (quasi un ossimoro tipo queer-nation), ma anche questo è un nodo da sciogliere, quello dei confini del “noi”, di un soggetto collettivo che non produca abiezione ai suoi margini…
In pratica però lo stiamo già facendo: chi sostiene Graziella e i tredici (apostati) di san pietro nei processi in corso, se non la rete politica e r-esistenziale che abbiamo attorno? Ovvero la nostra rete di affetti? Che cosa se non la stessa nostra socialità e i nostri consumi possono alimentare e finanziare le lotte anziché le lobby di potere che pretendono di rappresentarci?