Hack your city: frocizza la città
Ci siamo perse nelle nostre stesse parole, fra le gocce di sudore dei nostri corpi, sdraiate sulle lingue che leccavano il rossetto sulle nostre labbra: dobbiamo ancora ricostruirci le unghie, pettinarci i peli delle gambe, mettere le ciglia finte e nascondere le molot… ah, questo no, almeno a ‘sto giro.
La perdita del nostro stesso senso dell’orientamento è stata riacquisita nel momento in cui abbiamo realizzato che nella piazza del Rivolta Pride del 3 luglio eravamo più di ventimila sinergie connesse, da una voglia di spaccare tutto a quella di lanciare il nostro messaggio, questa volta più politico che mai.
Ci aspettavamo andasse bene, perché sapevamo che gli sforzi fatti non sarebbero stati vani. Non lo avremmo mai permesso, perché a prescindere dalla partecipazione numerica, eravamo ben consapevoli della forza del processo politico che ha portato alla costruzione di questo Rivolta Pride. Di certo però il superamento delle proprie aspettative è sempre una buona notizia.
Non ci siamo risparmiate niente, abbiamo detto tutto quello che volevamo e dovevamo dire: il nostro discorso si è scomposto tra i vettori delle reti di comunicazione digitale, si è assaggiato tra le fighette fritte e gli strap-on del Sacro Culo, si è affermato negli interventi rivendicativi diffusi tra le vie della città.
Quella di sabato 3 luglio è stata una giornata davvero importante, perché ce l’abbiamo fatta: abbiamo letteralmente hackerato lo spazio pubblico per un giorno intero. Le strade di Bologna erano nostre, tuttu lu presenti potevano percepirlo. Un corteo che ha rivoltato il concetto della neutralità spaziale, che si è opposto fortemente a chi continua a dire che il nostro modo di rioccupare le città è una pagliacciata, è eccessivo, che non c’è bisogno di mostrare – ed anzi, è addirittura controproducente – questo lato di noi e che faremmo meglio a tenerlo nascosto nel privato. No, non è così, e non ci dispiace per niente.
Ancora una volta abbiamo rivendicato l’indecorosità dei nostri corpi, da sempre inadattabili al regime eteronormato, abilista e razzista che regola i flussi di privilegio che scorrono nelle città, nelle province, nei paesi, e trasmessi verticalmente da un’idea applicata di Stato che poggia sul triangolo Padre-Patria-Nazione. Abbiamo cercato di costruire un Pride per tuttu, che potesse rappresentare tutti gli orgogli delle soggettività più marginalizzate possibili, antirazzista e antiabilista. L’hacking che abbiamo operato con il Rivolta Pride ha attraversato in maniera conflittuale, contraddittoria, transfemminista queer, le linee di razza, genere, classe e normoabilità che innervano le città. È stata una giornata di cura conflittuale, in cui l’espressione pacifica del corteo non ha ridotto la rabbia e l’importanza politica dei nostri discorsi. Le micro-aggressioni che sono successe durante e dopo la manifestazione avranno la risposta che meriteranno, perché non vogliamo più avere paura, perché vogliamo essere libere, perché questo eterocispatriarcato lo incendiamo con le nostre fiamme fuxia.
Abbiamo provato a dire la verità: per onestà politica e intellettuale, sapevamo che da solu non avremmo mai avuto la forza e la capacità di costruire un Pride così immenso. Ed oltretutto, l’angolino non ci basta più: vogliamo tutta la stanza, tutta la casa, tutto il palazzo, tutta la città, tutto il mondo. E forse questo è stato così chiaro da far sì che persino la stampa mainstream se ne accorgesse, finalmente.
Sappiamo che questo risultato a Bologna si è potuto ottenere con decenni di lotte politiche femministe prima, LGBTQIA+ e transfemministe poi. Sappiamo soprattutto che una legge non è sicuramente la nostra massima aspirazione, e lo testimonia il fatto che come femministe e transfemministe camminiamo sul filo del rasoio quando c’è da dibattere su cosa è o non è l’intero sistema di corpo di leggi per noi: soprattutto su di noi si riversa l’odio delle politiche statali e neoliberali che regolano il sistema, soprattutto su di noi si scatena la violenza della polizia quando manifestiamo, quando passiamo i confini, quando attraversiamo le strade, quando nelle strade ci lavoriamo come lavoratrici e lavoratori sessuali – come a San Berillo qualche mese fa. Sappiamo che le leggi attuali sono sbilanciate verso il potere maschile, misogino, omolesbobiatransfobico, razzista, e che quando ne viene fatta una per noi rimane spesso inapplicata o si presenta piena di difetti. Sappiamo che le nostre sorelle, le nostre compagne trans, marciscono in galera in pessime condizioni, spesso nel reparto di cui il genere non è il loro. #Moltopiùdizan è uno slogan che ha racchiuso anche tutte queste critiche durante le nostre assemblee, i nostri incontri e le birre informali, provando a superarle. Questo perché viviamo nella consapevolezza che i nostri corpi vivono di e nelle contraddizioni: molt* di noi sono insegnanti che ogni giorno vedono il proliferare della violenza di genere e dei generi tra fasce d’età molto giovani, in mancanza di una seria educazione sessuale, all’affettività, al consenso e al piacere. Molt* sono operatori pubblici, che da anni sentono sulle proprie spalle gli effetti dei tagli agli investimenti nel settore causati dal neoliberismo. Altr* sono sex workers, cis e trans, che ben sapendo della violenza puttanofobica dello stato e dei suoi apparati, reclamano a gran voce la decriminalizzazione del proprio lavoro per autodeterminarsi realmente – è storica la sentenza che a
Barcellona ha dato ragione alle istanze delle lavoratrici sessuali del Sindacato Otras, che ha permesso la legalizzazione dello statuto e il diritto a costituirsi sindacato ufficiale.
Ciò che noi pensiamo del potere è che bisogna ribaltarlo, rivoltarlo, in ogni modo e luogo, tra le righe delle Costituzioni e l’asfalto delle strade, tra le case rifugio e le occupazioni femministe, come dal 2019 stanno facendo in Cile. Il Rivolta Pride è stato il risultato di un esperimento che voleva seguire questo senso. “Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”; perché la violenza sistemica non sia più normalizzata. Perché la gestione neoliberale della pandemia globale da Covid-19, alle violenze, ci ha esposto ancora di più. Perché sappiamo che la riproduzione delle nostre vite, umane e non umane, in un mondo ecologicamente al collasso non è possibile, e che la liberazione transfemminista queer passa anche da un totale ribaltamento del rapporto capitalocentrico dominante.
La sfida è aperta: il Rivolta Pride si sente ancora, accompagnata da Rumore della nostra Raffaella.