Proviamo molta rabbia per quanto accaduto ad Altopascio, vicino Lucca. In particolare per due avvenimenti: l’aggressione fascista durante la serata Lgbt al Refresh e il messaggio forte che una donna trans senza cittadinanza ha voluto lanciare alla società intera dandosi fuoco in seguito alla notifica di sfratto.
La nostra rabbia riguarda entrambi gli episodi perché intimamente legati, poiché la violenza etero-patriarcale non si esprime solo nello squadrismo di stampo fascista con i manganelli, ma anche nella violenza istituzionale che smantella il welfare e, nel fare questo, esclude dalle briciole che restano tutte quelle soggettività che eccedono le norme del genere e della cittadinanza. Lottiamo per un reddito di autodeterminazione, slegato dalla cittadinanza e dallo stato di famiglia, che ci libererebbe da buona parte di quella violenza istituzionale e così anche da quell’isolamento e da quella dipendenza che porta alla morte di tante di noi.
Crediamo nell’autorganizzazione e nell’autodifesa. In risposta alla violenza squadrista non è sufficiente fare appello alle istituzioni o allo stato perchè ci proteggano o perchè promuovano programmi educativi contro l’omofobia. Noi facciamo appello prima di tutto agli stessi gay, lesbiche, trans, persone non binarie e a chiunque crede in una società libera dall’omofobia, dal sessismo e dall’oppressione di genere, perchè niente è più educativo – verso la società e verso le istituzioni stesse – di una massa di froce come noi, e di alleate delle froce, che sono fiere di esistere e che si organizzano insieme nelle piazze come nella vita quotidiana, spazzando via fascisti, omofobi e teocon come abbiamo già fatto a Verona Città Transfemminista il 30 marzo 2019.
Sappiamo quindi che gli attacchi di questo tipo si inseriscono in un clima culturale estremamente violento nei confronti di tutt* coloro che rappresentano una sfida all’ordine della nazione bianca ed eterosessuale, che buona parte della “gente comune” vorrebbe realizzato. Sappiamo anche che questo fenomeno culturale non può chiamarsi “omofobia”, come vorrebbero farci credere. Non si tratta infatti di una paura irrazionale che i “poveri” eterosessuali provano alla nostra vista, si tratta invece di un sistema sociale e culturale con profonde radici e una lunga storia di violenza, patologizzazione, criminalizzazione, esclusione sociale e sfruttamento.
Ci chiediamo allo stesso tempo perché la matrice neofascista degli attacchi al pub Refresh venga minimizzata, se non addirittura nascosta, da buona parte della comunità stessa che è stata attaccata. Credimo che parlare genericamente di una “aggressione omofobica” sia funzionale a legittimare la richiesta di una legge contro l’omolesbobitransfobia come unica soluzione e unica prospettiva di lotta politica del movimento LGBTIQ+. C’è chi vuole convincerci che ci basterebbe dimostrare che siamo “normali”, producendo valore e mettendo su famiglia, per non essere più discrimintate/i o aggredite/i. Sappiamo bene che si tratta di un’illusione e di una trappola.
Sappiamo che una legge che inasprisce le pene a chi commette crimini contro le persone LGBTIQ+ non avrebbe evitato l’aggressione ad Altopascio, così non avrebbe evitato la disperazione e il suicidio: è noto che l’aumento delle pene non ha come conseguenza una diminuzione del crimine. Inoltre, ripercorrendo la storia degli ultimi interventi legislativi in materia di “sicurezza” delle donne, ovvero contro la violenza di genere, ricordiamo bene le piazze femministe mobilitate contro quelle stesse norme, poiché strumentalmente inserite in Pacchetti Sicurezza che criminalizzavano i migranti (2008) o gli attivisti no TAV (2012). Insieme alle femministe abbiamo gridato allora e gridiamo oggi: non in nostro nome, non sui nostri corpi! L’illusione di “sicurezza” di alcune persone LGBTIQ+ non può essere merce di scambio per politiche securitarie, razziste e repressive.
Questa cultura violenta è la faccia visibile della violenza sistemica e strutturale che può essere scalfita con l’aumento degli interventi nella scuola, con la formazione anche nei luoghi di lavoro, negli ospedali, in tutti quei luoghi dove quotidianamente le persone LGBTIQ+ vivono discriminazioni ed esclusione. Quei settori, insomma, che subiscono oggi i tagli economici più pesanti.
Come ci ha insegnato il movimento NonUnadiMeno le nostre lotte non sono delegabili e una trasformazione e sovversione radicale della matrice eterosessuale del patriarcato è possibile solo con la lotta collettiva: sotto il segno dell’autonomia, dell’autodeterminazione, del mutualismo, dell’autoproduzione di sapere, dell’autodifesa e di una maggiore organizzazione collettiva. È da questo posizionamento di confine che riusciamo a smascherare le vuote retoriche securitarie e ad immaginare un presente e un futuro migliori.
Ci vogliamo vive, ci vogliamo insieme, ci vogliamo in lotta!