Il 3 Novembre abbiamo partecipato all’iniziativa di PLAT “La casa, un incrocio di lotte”
il nostro intervento – Queering home: lavoro di cura e riproduzione sociale nelle s/famiglie queer –
Quando si parla di diritto alla casa difficilmente si adotta una prospettiva femminista e transfemminista queer, dissolta nell’elaborazione generalista: da questo punto di vista, rivendicare il diritto universale ad avere una casa significa avere l’opportunità di sottrarsi a possibili casi di violenza domestica, di matrice sessista o queerfobica, significa avere la possibilità di allontanarsi da un contesto di origine che può farci sentire strett* (come tant* di noi terron* hanno fatto scegliendo di trasferirsi qui, dove le reti sociali sono più ampie e solide) o che ci obbliga a doverci nascondere, significa avere più margine di autonomia e autodeterminazione.
Molte nella nostra comunità sanno cosa significa sentirsi oppresse nella propria casa, convivere con dei genitori che fanno di tutto per ostacolare il soggettivarsi del proprio orientamento sessuale e della propria identità di genere. Molte di noi sanno, come diceva il compagno prima all’inizio, cosa significa affrontare l’impatto psicologico di perdere la casa, la malattia mentale, e farlo da persone queer che hanno l’egemonia del mondo contro.
Come frocie, trans, lesbiche, gay e donne abbiamo dovuto e voluto trovare delle forme alternative di legami, sperimentando affetti e relazioni fuori dalla famiglia d’origine, detradizionalizzando le nostre parentele, mettendoci a disposizione l’un* per l’altr* quando l’eterosessualità obbligatoria ci divideva e isolava. Ad oggi questa detradizionalizzazione delle parentele è sempre più diffusa, spinta dal fenomeno di migrazione interna/esterna che scombina e contamina la rigida norma familista e nazionalista.
Leino Acquistapace, compagno storico del laboratorio smaschieramenti, ha scritto un libro che raccoglie il nostro lavoro politico prodotto in questi anni e lo analizza attraverso interviste ed etnografie a sfamiglie queer fatte di amic*, ex di ex, compagn* e conoscenti, che rimettono profondamente in discussione il significato simbolico e pratico di “casa”, “famiglia” e “lavoro di cura”, orientandolo più verso la libertà di scelta di prenderci cura di chi vogliamo, quando vogliamo e come vogliamo, e rimuovendolo dal paradigma coercitivo di un lavoro di cura obbligatorio e mosso dal senso del dovere verso i propri cosanguinei.
La critica femminista marxista elaborata dagli anni Sessanta ad oggi afferma, molto in sintesi, che l’accumulazione capitalista si sviluppa soprattutto attraverso lo scarico del lavoro di riproduzione sociale – non pagato e obbligatorio – sulle donne e sui corpi femminilizzati, irrigidendo così i ruoli di genere e rinforzando la gerarchia economica che vede la figura dell’uomo bianco, etero e borghese al primo posto della piramide. La detradizionalizzazione delle parentele (con la conseguente possibilità di poter scegliere con chi convivere) ha permesso non solo una redistribuzione più equa del lavoro di cura – l’assenza del legame simbolico del sangue porta a una maggiore redistribuzione delle responsabilità perché i ruoli sono indefiniti – ma anche una maggiore autodeterminazione individuale e collettiva che aiuta la nostra emancipazione e soggettivazione, curando legami in cui scegliamo liberamente di mettere amore, impegno e sostegno reciproco, nella misura che vogliamo e sentiamo più adatta.
Le nostre forme di cura – fuori e dentro i circoli di produzione – e di riproduzione sociale queer trasformano l’insostenibilità della materialità delle nostre vite in possibilità politiche di movimento e autodeterminazione collettiva: è dagli anni della pandemia di AIDS e della patologizzazione omo/trans-sessuale che abbiamo imparato quanto sia fondamentale il mutuo aiuto dal basso, accompagnato necessariamente da forme di lotte capaci di leggere le articolazioni differenti delle varie forme di potere che ci opprimono e di ribaltare quel legame fortissimo tra eterocispatriarcato, razzismo e capitale.