Primo maggio del lavoro queer

Come soggettività LGBTQIA+, persone con disabilità e neurodivergenti siamo – siamo sempre stat* – dentro il processo produttivo. Abbiamo quindi molto da dire sia sul nostro accesso al lavoro, sia sulla nostra salute psicofisica sul lavoro. È importante affermarlo poiché la nostra presenza è stata silenziata, da un lato, dalla rappresentazione falsa di una working class tutta bianca, maschia, cisgenere ed eterosessuale, e dall’altro lato dalle strategie di “diversity management” che si sono basate negli anni su questa rappresentazione.

Assistiamo ad una gestione differenziale del genere, dell’orientamento sessuale e delle condizioni di disabilità o neurodivergenza: vengono mostrate e valorizzate dove rendono di più, nascoste, represse e corrette dove rendono di meno. Una vera e propria “disciplina di fabbrica” del genere, estesa a tutti i contesti lavorativi e diversa per ogni settore. Con conseguenze materiali e dirette sulle nostre vite: dalla gestione delle molestie sul (e del) lavoro, al mobbing, alle disabilità riconosciute e non riconosciute, all’erogazione o meno delle carriere alias, alla performance lavorativa presupposta. Di più: questa ri-sistemazione concettuale approfondisce l’analisi della questione meridionale, che acquisisce come motivazioni ulteriori non solo la maggiore disponibilità di lavoro al Nord Italia, ma anche il maggior investimento sul diversity management e, di conseguenza, la speranza di trovare condizioni di oppressione migliori migrando da Sud. Che detto da un punto di vista working class queer significa: più possibilità di farsi sfruttare all’interno di ghetti lavorativi del genere, o di farsi sfruttare senza nemmeno il vantaggio di poter vendere la propria oppressione ai padroni.
Risulta chiara la 𝐟𝐚𝐥𝐬𝐢𝐭𝐚̀ 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐫𝐚𝐩𝐩𝐨𝐬𝐢𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐭𝐫𝐚 𝐝𝐢𝐫𝐢𝐭𝐭𝐢 𝐬𝐨𝐜𝐢𝐚𝐥𝐢 𝐞 𝐝𝐢𝐫𝐢𝐭𝐭𝐢 𝐜𝐢𝐯𝐢𝐥𝐢. In questi decenni la retorica delle priorità ha dipinto le rivendicazioni LGBTQIA+ come sovrastrutturali e da privilegiati. Ci vuole un riconoscimento dei meccanismi che creano questa narrazione: è innegabile che il partito che l’ha promossa abbia usato la legge Zan per distrarre dalle sue politiche del lavoro sono contro chi lavora. Bisogna riconoscere questo tentativo, svelarlo e rifiutarlo: non sono solo le destre a creare questa contrapposizione. Non è bastato negli scorsi anni, infatti, dire che la discriminazione non è solo costituita dall’hate speech, e che invece è materiale e violenta. Bisogna smascherare quanto non veniamo pres* sul serio, come se non fossimo dentro il processo di estrazione e di questa composizione di classe.
𝐋𝐀 𝐋𝐄𝐆𝐆𝐄 𝟏𝟎𝟒, 𝐑𝐄𝐆𝐎𝐋𝐀𝐙𝐈𝐎𝐍𝐄 𝐈𝐍𝐕𝐀𝐋𝐈𝐃𝐈𝐓𝐀̀
Gli strumenti previsti per le persone con disabilità sono i collocamenti mirati, ma molte aziende preferiscono pagare le multe previste dalla legge 68/99, e dalla legge 104/92. Denunciamo il non riconoscimento di molte patologie invalidanti (spesso si tratta di malattie considerate “femminili” come fibromialgia, vulvodinia, ecc) o dello status di invalidità per persone intersex che hanno subito interventi chirurgici coatti alla nascita. La legge 104/92 in questione, peraltro, non tutela alcune neuro divergenze perché considerate “ad alto funzionamento”, come l’ADHD, e non gli riconosce lo status di invalidità. Molte persone neuro divergenti sono costrette a nascondere la propria condizione in sede di colloquio. Le “pensioni” di invalidità sono considerate pensioni di “povertà” ed infatti decadono se una persona ha un reddito di circa 500 euro al mese!
Per tutti questi motivi chiediamo il superamento della legge 104 e un suo profondo ripensamento. Riteniamo insufficiente il bonus caregivers e stiamo attenzionando la “disability card”: chi davvero avrà accesso a quali benefici?
Abbiamo bisogno di ridiscutere dell’accesso al mondo del lavoro e del tema della vita indipendente.
𝐂𝐀𝐑𝐑𝐈𝐄𝐑𝐀 𝐀𝐋𝐈𝐀𝐒 𝐍𝐎𝐍 𝐏𝐀𝐓𝐎𝐋𝐎𝐆𝐈𝐙𝐙𝐀𝐍𝐓𝐄 𝐍𝐄𝐈 𝐋𝐔𝐎𝐆𝐇𝐈 𝐃𝐈 𝐋𝐀𝐕𝐎𝐑𝐎 𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐟𝐨𝐫𝐦𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞
Vogliamo reale accessibilità e attraversabilità dei luoghi di lavoro, di formazione e di socialità: ad esempio bagni o spogliatoi per molt* lavorator* rappresentano un grosso limite. Ma anche la CARRIERA ALIAS ad oggi implementata nelle Università e alcune scuole secondarie purtroppo richiede una diagnosi di “disforia di genere”, patologia inesistente e cancellata dall’OMS. Vogliamo carriere alias in tutti i luoghi di lavoro!
𝐋𝐀𝐕𝐎𝐑𝐎 𝐃𝐈 𝐂𝐔𝐑𝐀, 𝐋𝐀𝐕𝐎𝐑𝐎 𝐃𝐎𝐌𝐄𝐒𝐓𝐈𝐂𝐎 𝐞 𝐑𝐈𝐏𝐑𝐎𝐃𝐔𝐓𝐓𝐈𝐕𝐎
Emerge con forza la necessità di riportare nel discorso pubblico la questione del lavoro di cura per pretendere un’equa redistribuzione: i nodi chiave sono il Welfare e la socializzazione del lavoro di cura. La dimensione del “pubblico” non è meramente simbolica ma piuttosto necessaria laddove si voglia intervenire su maggior accesso agli asili nido, cohousing per persone anziane e per nuove forme di relazioni. Pretendiamo che le istituzioni si facciano carico di riforme in questo senso, garantendo l’autonomia delle persone/associazioni/reti LGBTQIA+, di persone con disabilità di persone neurodivergenti e di persone sierocoinvolte che si organizzano.
Con la pandemia abbiamo assistito a una divaricazione sempre più forte tra il mondo materiale, con i suoi variegati strumenti mutualistici, e la dimensione normativa (il punto più basso è stato toccato nel maggio 2020 con le relazioni permesse solo fino al sesto grado di parentela, mentre in Germania potevi scegliere sette persone).
Il lavoro riproduttivo non retribuito, quando viene salariato, diventa sostanzialmente tutto quel settore della cura che ha subito un forte incremento nei mesi della pandemia. Quando il lavoro domestico viene portato nel mondo del salariato ciò che si ottiene sono badanti, figure ospedaliere precarie, cooperative di pulizie, singole figure che lavorano nella cura della casa per famiglie, impieghi mal retribuiti nel terzo settore. E va tenuto conto inoltre del fatto che i soggetti femminilizzati svolgono il più delle volte un doppio lavoro – non solo quello domestico, ma anche quello salariato, magari part time – e che questo è spessissimo, a sua volta, lavoro di cura retribuito. Si è detto, inoltre, che l’associazionismo copre il vuoto dei servizi pubblici. Si rivela così necessario socializzare il lavoro di cura, e ancora una volta rendere pubblico questo settore, non esternalizzato e lasciato nelle mani dei privati.
𝐀𝐆𝐄𝐈𝐒𝐌𝐎 𝐄 𝐀𝐍𝐙𝐈𝐀𝐍𝐈𝐓𝐀̀
Il punto sull’ageismo si interseca con l’impostazione familista e con le questioni del lavoro di cura. Vediamo un capillare problema quando c’è una diminuzione dell’autonomia nelle persone anziane. Questo diventa un lavoro per le persone della famiglia di origine o della s/famiglia, dove spesso il lavoro di cura ricade sulle soggettività femminilizzate, o problema delle badanti e del lavoro nero e razzializzato, dove spesso sono al lavoro donne cis e migranti; una regolare assistenza h24 richiederebbe tre turni da 8 ore = tre stipendi full time da coprire: non alla portata di molte famiglie. Questo porta al ricorso a RSA, ma questo sradica la persona da casa propria e la espone a personale non formato rispetto a genere e orientamento sessuale. Lo stato dovrebbe dare la possibilità alle famiglie e s/famiglie di avere accesso a cure buone e professionali, consapevoli rispetto a genere e orientamento sessuale, per persone anziane LGBTQIA+.
𝐒𝐎𝐒𝐓𝐄𝐍𝐈𝐁𝐈𝐋𝐈𝐓𝐀̀ 𝐄𝐂𝐎𝐍𝐎𝐌𝐈𝐂𝐀 𝐄 𝐀𝐁𝐈𝐓𝐀𝐑𝐄
Come persone trans e intersex diciamo: il costo di migliaia di Euro per il cambio di nome, i costi per i servizi offerti dai centri prescrittori e del percorso, le sedute degli psicologi, non sono sostenibili per molt* di noi! I costi non sono conformi in tutto il paese e in alcuni casi si arriva a pagare fino a 500 euro una relazione psicologica per la propria affermazione di genere! Le discriminazioni transfobiche inoltre permangono quando si cerca un lavoro o quando si vuole affittare una casa, a volte perché i documenti non rappresentano il genere di una persona oppure perché dove non c’è “passing” la transfobia si fa più violenta ed escludente.
Rivendichiamo, insieme ad altri movimenti, il reddito di autodeterminazione:
come riparazione per un sistema discriminatorio
Lotta per la casa: non basta dire ci servono più case rifugio, anche l’occupazione è una forma di resistenza alla violenza economica!
𝐒𝐄𝐗𝐖𝐎𝐑𝐊
Il problema di accesso al mercato del lavoro produce una gerarchizzazione di fatto che comporta, fra le altre cose, una sovrarappresentazione nel lavoro sessuale delle persone LGBTQIA+, e in particolare di quelle caratterizzate da condizioni di disabilità, neurodivergenza, razzializzazione. In alcuni casi, si creano anche delle condizioni di doppio lavoro – quello sessuale e quello formale, producendo ulteriori condizioni da occultare. Il lavoro sessuale in sé comporta una serie di rischi nella mancanza di tutele in cui si svolge oggi.
AUTONOMIA è una parola chiave, soprattutto dal punto di vista economico. L’accesso al lavoro è questione fondamentale. Il lavoro di operatrice/toru sessuale è stata l’unica opzione per moltu di noi persone trans e non binarie, soprattutto nella
generazione precedente.
La criminalizzazione del cliente o di chi svolge lavoro sessuale, pensata come metodo di contrasto alla tratta della prostituzione e dello schiavismo sessuale, si ritorcono così contro chi svolge lavoro sessuale, non garantendo in alcun modo però
percorsi di fuoriuscita dalla tratta. Il fenomeno della tratta, peraltro, interessa una grande quantità di settori, specialmente quelli della cura (come nel caso del badantato) o del lavoro agricolo, intercettando il fenomeno migratorio per fornire
manodopera a basso – se non nullo – costo.
Il nostro movimento si interseca con la questione del sexwork. Chi sceglie questo lavoro subisce pregiudizi e stigma. Il lavoro sessuale è lavoro e la sua decriminalizzazione aiuterebbe la lotta alla tratta e il superamento dello stigma.
𝐁𝐮𝐨𝐧 𝟏 𝐌𝐀𝐆𝐆𝐈𝐎 𝐝𝐢 𝐥𝐨𝐭𝐭𝐚 𝐞 𝐝𝐢𝐬𝐞𝐫𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞
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