Appello per viedoinchiesta sulle relazioni

 

SEI SINGLE? SEI MULTIPLO/A?

SEPARATO/A? DIVORZIATO/A? PROMISCUO/A?

NON HAI FIGLI?

I TUOI COINQUILINI/E SONO DIVENTATI LA TUA FAMIGLIA?

QUANDO IL PRINCIPE AZZURRO TI HA TROVATO SEI CORSA A NASCONDERTI MEGLIO? (O VORRESTI AVERLO FATTO)

LA TUA VITA E’ COMPLICATA?

TI SENTI POCO NORMALE?

 

LABORATORIO SMASCHIERAMENTI

 

 

alla ricerca di nuove forme (esistenti, tentate, desiderate o immaginate) di relazione, affettività, sessualità, famiglia

 

gruppo di discussione, inchiesta, azione e delirio

@ atlantide

piazza di porta santo stefano 6

partecipazione aperta e libera

ci siamo (quasi) ogni mercoledì

per info:

infosmaschieramenti@inventati.org

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Questionario sul desiderio (del) maschile

SMASCHIERAMENTI_QUESTIONARIO_09072008.pdf

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Penetrabile è meglio! Articolo per liberazione.

 

Penetrabile è meglio!

Alessandro Zijno – Laboratorio Smaschieramenti

Liberazione, 22 agosto 2008

 

 

Sostenere che non esistano discriminazioni è il modo più banale di manifestare il proprio razzismo. Ogni serena analisi della nostra società dovrebbe sempre tenere presente la banale constatazione che questo non è il paese delle pari opportunità realizzate. Eppure l’atteggiamento di negare che esistano discriminazioni si sta diffondendo in maniera virale nell’immaginario collettivo. Da sempre più parti si sente il bisogno di manifestare l’idea che tante conquiste sono state ormai realizzate, che in fondo è meglio qui che da tante altre parti (come se la considerazione che c’è qualcuno che sta peggio di noi possa essere confortante). Questo atteggiamento può sorprendere per i motivi più diversi, e sicuramente dovrebbe sorprendere per il fatto di essere trasversale a tutti i settori del tessuto politico e sociale. Ma quello che spesso si evita di notare è che queste posizioni sono di fatto funzionali a, e in quanto tali prodotte da, un molesto clima di normalizzazione. Un clima che si sta diffondendo, un clima che preferisce risolvere, a suo unico beneficio, le tensioni sociali negando o mascherando le differenze e accettando solo chi non si fa notare, chi scompare e si integra in uno scenario normato fin nei minimi particolari: non ti accetto in quanto omosessuale, gay, lesbica o quanto altro, ma se non ti fai notare, se accetti l’ordine costituito, allora posso fare finta di non vederti. Si pensi al clima in cui è maturato l’attacco alle trans del Prenestino a maggio, dove alcuni cittadini del quartiere, alla presenza delle forza dell’ordine, hanno messo in atto una vera e propria "caccia" a un gruppo di trans al grido di "froci di merda" e "ve la faremo vedere". Ma in questo processo di normalizzazione non è solo la comunità LGT nel suo complesso ad essere coinvolta, ma la società stessa nella sua generalità, dalle prostitute ai migranti, dai diversabili a tutte le categorie ritenute non conformi.

 

E’ di questi giorni la notizia di un ragazzo, presunto affiliato mafioso, stuprato in carcere perché ritenuto omosessuale. Il gr2 passa la notizia con il titolo: "Picciotto stuprato in carcere in quanto ritenuto omosessuale perché scrive poesie d’amore". E, dopo aver esplicitato che il ragazzo non è affatto omosessuale, ma soltanto una persona (come il suo avvocato tiene a sottolineare) dai modi leggermente "femminili", il servizio si concentra sul mostrare quanto sia sciocco pensare che un maschio possa essere omosessuale solo per il fatto che scriva poesie d’amore. Ed ecco che l’effetto normalizzazione è realizzato, l’omofobia è cancellata a favore dello smascheramento della falsa connessione poesia/omosessualità. Così chi ascolta la notizia non è portato ad inorridire per l’aggravante omofobica della violenza, non si infastidisce perché ancora non c’è una legge che riconosce l’omofobia e la transfobia come aggravanti, ma al contrario si sente tranquillizzato nel fatto di sentirsi normale, perchè ovviamente non crede, come quei criminali che hanno perpetrato la violenza, che chi scriva poesie d’amore debba essere omosessuale.

 

La tentazione ovviamente, da parte di molti, è quella di considerarsi immuni a questo tipo di messaggi, di pensare di avere ormai sviluppato gli anticorpi per questo tipo di manipolazione. Eppure siamo proprio convinti che sia così? Si prenda per esempio la pressante questione della violenza contro le donne. Questa è stata trattata soprattutto come questione sicurezza e in quanto tale immediatamente legata al fenomeno dell’immigrazione clandestina. Ma, come ribadito con fermezza dalla manifestazione delle femministe e lesbiche del 24 novembre 2007 a Roma e come denunciato settimanalmente dalle colonne della stessa Liberazione, la questione della violenza contro le donne ha poco a che fare con la questione immigrazione, quanto piuttosto ha a che fare con il concetto di famiglia, o meglio con la cultura maschile che questo concetto ha costruito per suo uso e consumo, determinandone i rapporti di forza al proprio interno. Concetto di famiglia unicamente fondato su una presunta dualità sessuale normata secondo uno schema oppositivo in cui un sesso è dominante rispetto all’altro. Concetto di famiglia che non intende riconoscere, se non come devianza, alcun altro tipo di identità o di relazione, in quanto queste ne minerebbero proprio quei rapporti di forza che permettono di perpetrare lo schematismo. Quanti di noi, pur riconoscendo i presupposti e opponendosi formalmente alla normalizzazione, riescono o almeno soltanto tentano di riportare questo impegno all’interno della propria quotidianità, nel proprio piccolo mondo personale e anche all’interno delle proprie pratiche politiche? Quanti si sono interrogati su come il rapporto di forza tra le due identità imposte dalla cultura dominante sia ancora così colpevolmente sbilanciato? O meglio ancora, quanto siamo stati capaci di riportare queste riflessioni all’interno del nostro agire, all’interno dei nostri rapporti relazionali? Insomma, quanto siamo disposti ad ammettere che c’è qualcosa nella cultura maschile che non funziona? Quanti maschi, che pur si considerano di sinistra, progressisti, democratici, quand’anche femministi sono pronti a mettere in discussione la propria cultura maschile e riconoscere la disparità di potere culturale e una strategia di dominio di un genere sugli altri? Quanti sono disposti a considerare, per esempio, il reddito della propria compagna come principale e non semplicemente ausiliario alla gestione familiare? Quanti sarebbero pronti ad essere economicamente dipendenti senza per questo sentire sminuire la propria identità di genere? D’altra parte la prima strategia con cui la cultura dominante perpetua se stessa è proprio quella di non riconoscere altri sessi oltre ai due culturalmente imposti, relegando il pur statisticamente rilevante fenomeno dell’intersessualità a mera patologia o stramberia della natura e in quanto tale medicalizzato, nascosto e chirurgicamente e ormonalmente aggiustato. Quanti tra gli etero e non solo, per esempio, sono disposti a dimostrare, e non a parole, ma nei fatti, nelle pratiche e nel modo di apparire, nell’educazione impartita ai figli per mezzo dell’emulazione che il loro essere maschio rifugge ogni tentativo di virilismo, di ricorso alla legge del più forte, declinata nelle sue diverse forme: da quella brutalmente fisica a quella economica, passando per quella psicologica e per quella verbale?

Ed è proprio questo mancato riconoscimento nei fatti, nella quotidianità politica e privata, di questa disparità, di questa smania normativa e normalizzante che tende ad annullare tutto ciò che è strano, freak, queer (e purtroppo nessun segnale di smentita giunge oggi dalla comunità dei maschi) che spinge a segnalare che quella che è stata chiamata emergenza sicurezza è in realtà un’emergenza virilista, perché la sicurezza dell’individuo non è data e non può essere realizzata attraverso una militarizzazione della società, cosa che di fatto rinforza la cultura virilista stessa (perchè il fine non può giustificare i mezzi, ma sono i mezzi che devono esprimere il fine). Perchè la sicurezza degli individui può essere raggiunta solo attraverso una decostruzione e una messa in condizioni di non nuocere della cultura macista, della cultura del più forte, della cultura della sopraffazione in qualsiasi forma, luogo o momento si manifesti. Perchè non ci può essere sicurezza finché ci sarà in giro una cultura che premia atteggiamenti aggressivi e prepotenti, che connota positivamente l’astuzia e la furberia. Perché non ci può essere sicurezza finchè non si ammette, come sottolinea Adriano Sofri su la Repubblica del 21 giugno, che "… lo stupro delle donne non è solo un’arma delle guerre fra uomini, ma è l’arma simbolicamente decisiva della universale guerra degli uomini contro le donne, e che stupro e assassinio di donne in tempo di pace sono una forma di addestramento militare e di caparra privata sulla guerra generale".

E questa guerra generale è combattuta considerando i corpi delle armi, dove tutte le proprietà penetranti pertengono al corpo maschile, mentre quelle penetrabili al corpo femminile. Ma perché il maschile coincide con l’impenetrabilità? Quale altro vantaggio "adattivo" nasconde questo costrutto culturale se non l’idea stessa di dominio di una classe di individui sulle altre? Il maschile è reso impenetrabile, corpo compatto, chiuso, proteso ariete alla conquista degli altri corpi, mentre il femminile si fa morbido, penetrabile, conquistabile. Ma, esattamente come l’ostracizzazione dell’orgasmo clitorideo è stata strumento di controllo sui corpi delle donne, almeno prima della rivoluzione femminista dei Settanta, allo stesso modo, quanto è più forte la cultura virilista, tanto è più forte il tabù dell’orgasmo anale maschile. Quanti maschi, in questa società, sono disposti ad ammettere pubblicamente che la penetrazione anale maschile può essere piacevole? Quanti sono minimamente disposti anche semplicemente a pensarsi penetrabili senza sentire la propria identità maschile messa a repentaglio? Del resto la nostra società stigmatizza la penetrabilità maschile legandola a doppio nodo con l’omosessualità (altro marchio tipicamente usato come infamia nelle società viriliste), escludendo violentemente due modalità di essere uomini non allineate al modello dominante, perchè d’altronde essere penetrabili non implica essere omosessuali e viceversa. Così la penetrabilità potrebbe, invece, essere uno dei punti di partenza di una riflessione maschile che conduca a riappropriarsi del proprio corpo liberandolo dal controllo imposto dal macismo.

Tutte queste ragioni hanno spinto i partecipanti al Laboratorio Smaschieramenti a mettersi in discussione per cercare di costruire una idea alternativa del maschile che non rifiuti la dipendenza, la penetrabilità e la morbidezza. Perchè questo non è il momento di rinchiudersi nel privato, di nascondersi nelle pieghe delle società, di cedere all’ingannevole, benché allettante, richiamo alla normalizzazione. Questo è, invece, il momento di puntare i piedi, di fare argine, di smarcarsi e di schierarsi di fronte ad un virilismo sempre più prepotente. Questo è il momento di manifestare un nuovo posizionamento e rivendicare la propria peculirità di fronte all’immagine opprimente e totalizzante del maschile, rivendicando con orgoglio il proprio essere stonato all’interno di un coro che vorrebbe tutti riducibili ad un unico modello. Questo è il momento per tutti quei maschi che non si riconoscono nella figura virilista dominante, che non sentono propri i valori della forza, della sopraffazione, dell’aggressività, dell’impenetrabilità, che non credono in un mondo diviso in due, che non credono che tutto debba essere normato e normalizzato di alzare la testa, di farsi vedere, di prendere coscienza e parola, di diventare sempre più visibili, perché se non lo faranno ora, non avranno più la possibilità di vivere la loro vita come se la sentono addosso e non come altri vogliono che la vivano. Pensateci.

 

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A grande richiesta… il questionario è on line!

Qui >>>> SMASCHIERAMENTI_QUESTIONARIO_09072008.pdf  trovate il .pdf di Smaschierati anche tu!, il questionario sul desiderio (del) maschile diffuso dal Laboratorio Smaschieramenti negli spazi sociali bolognesi.

Potete compilarlo da soli nella vostra cameretta, o insieme agli amici e alle amiche, o somministrarlo ai vostri conoscenti per il vostro personale e perverso piacere e per la vostra libera riflessione…

Se invece intendete utilizzarlo in iniziative pubbliche, per favore contattateci: infosmaschieramenti@inventati.org 

Buona compilazione!

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GENEREalmente – Giornata di riflessione sulla violenza di genere

 


Domenica 22 novembre 2009 – Dalle 10 alle 17 – Milano, via Pichi 3 (MM
Porta Genova – ex spazio Mimesis)

L’anno scorso durante la Mayday, il primo maggio dei precari e delle
precarie, è avvenuto un fatto gravissimo: una violenza sessuale ai
danni di una ragazza. Le violenze avvengono in casa, avvengono sul
lavoro, avvengono ovunque, e nemmeno i nostri luoghi ne sono immuni.
Inoltre il nostro paese è nel mezzo di un’ondata di machismo inedita,
che dal governo e dalle televisioni sta travolgendo tutta la società.
Per questo pensiamo che il movimento abbia bisogno di lavorare di più
su pensieri e pratiche che si oppongano al sessismo, così come da
sempre ha assunto come fondanti la lotta al razzismo e al fascismo. La
Mayday lavora da anni contro precarizzazione e sfruttamento, contro la
mercificazione delle nostre vite, ma non c’è liberazione possibile
senza un intervento sul terreno del genere. Abbiamo bisogno anche su
questo tema di lavorare sul lungo periodo, nei territori e negli
spazi, per trovare buoni strumenti di contrasto e di sovversione dei
modelli culturali che alimentano le relazioni violente fra i generi.

Vogliamo anche che, come è sempre stato, in futuro la Mayday continui
a essere uno spazio di partecipazione che dura per tutto l’anno,
allergico alle spinte a rinchiudersi nel territorio delle proprie
identità. Vogliamo contribuire a costruire collettivamente una Mayday
sicura ma senza pratiche securitarie, vogliamo sviluppare strumenti
pratici e comunicativi per agire contro la violenza. E vorremmo
affrontare il problema con un percorso proiettato nel futuro, perché
partendo dalla Mayday ma con la volontà di andare oltre al primo
maggio, possiamo confrontarci anche con altre parti dei movimenti.

Domenica 22 novembre 2009 a Milano dalle 10 alle 17 lanceremo un
percorso di critica degli immaginari e dei modelli culturali che
producono violenza di genere. Ragioneremo di progetti sulle pratiche
collettive che ci aiutino a disinnescare i meccanismi della violenza
di genere nei nostri luoghi e spazi. Discuteremo e lanceremo un ciclo
di workshop nelle nostre città per arrivare al prossimo appuntamento
con alle spalle un percorso radicato e condiviso.

Chiediamo a tutte le realtà e le persone interessate di partecipare
alla giornata e di prendere parte attiva in questo percorso per
assumersi un pezzo di responsabilita collettiva insieme a noi.

Programma:

Mattina: Riflessioni
Partiamo da quello che c’è già e e dai noi stesse/i. Presentazione di
esperienze, progetti di comunicazione, strumenti contro la violenza.
Condivisione di riflessioni sulle esperienze passate e presenti.
Partecipano Laboratorio Smaschieramenti, Macho free zone, Rete dei
mondiali antirazzisti, Lucciole antifascista, QueeRing – frangette
estreme, Collettivo Millepiani.

Pomeriggio: Workshop
1 – Un po’ di autocoscienza non nuoce alla salute. Come sviluppare
strumenti per l’autoinchiesta che escano dal privato per creare
curiosità e partecipazione e permetterci di affrontare il percorso in
modo più consapevole.

2 – Empowerment rules! Dobbiamo lavorare sugli immaginari e i modelli
culturali che producono la violenza di genere, senza riprodurre il
ruolo della donna come vittima. Per comunicare e agire pensieri e
pratiche antisessiste anche nei nostri mondi e percorsi politici.

3 – Plenaria 🙂 Vorremo far sfociare il nostro lavoro in un’iniziativa
diffusa nelle nostre città, per raccontare e discutere le riflessioni
che emergeranno dal percorso che stiamo intraprendendo.

Domenica 22 novembre – dalle 10 alle 17 – Milano, via Pichi 3
info@euromayday.org
italy.euromayday.org/generi

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Volantino su reggae omofobo

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Lettera aperta al Sottotetto, ai centri sociali e alla scena reggae italiana

Da noi è un dibattito teorico, in Giamaica ci si gioca la vita”
Maria Carla Gullotta
Amnesty International Giamaica

Il 12 novembre 2009 torna in Italia Sizzla, star del panorama reggae giamaicano, al Sottotetto di Bologna.

Sono almeno 5 anni che assistiamo e partecipiamo al dibattito sui testi omofobici e sessisti di alcuni pezzi reggae. Per chi ancora non lo sapesse, e ci rivolgiamo soprattutto ai reggae boyz italiani, probabilmente avremo spesso ballato senza saperlo su liriche che urlano di sparare ai gay o di picchiare chi pratica la sodomia o il sesso orale. Buju Banton, Capleton, Sizzla, Beenie Man, il movimento dei Bobo Dread e in generale parte della musica che ruota intorno alle dance-hall e al ragamuffin, hanno veicolato a partire dagli anni ’90 messaggi di odio verso gli omosessuali, le lesbiche e in generale verso la libertà sessuale, che sarebbe, secondo loro. una sorta di corruzione determinata dalla società occidentale, al pari dell’inquinamento e del capitalismo.

Questa reazione alla libertà sessuale, più che farci venire in mente i padri del reggae, il rastafarianesimo e le positive vibrations, ci sembra molto simile a quello che pensa Ratzinger, insieme alla maggioranza del parlamento italiano e a buona parte dei suoi cittadini, che vengono ogni giorno imboccati dalla televisione e temono qualsiasi cosa o persona presenti delle differenze rispetto alla loro presunta normalità: rumeni, musulmani, burqa, famiglie moderne e allargate, droghe leggere o pesanti. E ovviamente lesbiche, gay, trans, bi, tri o polisessuali, e in generale chiunque cerchi di vivere fuori dai modelli patriarcali di famiglia, mascolinità e femminilità.

Questo assalto volgare e violento alla nostra libertà sessuale non può che farci  pensare agli immigrati deportati nei centri di detenzione, alle leggi in difesa di tutti gli orientamenti sessuali che non passano in parlamento, alle prostitute trans inseguite e picchiate da “normali” maschi romani e alle telecamere del tg1 alle loro spalle. Alla legge Fini sulle droghe, alla legge Bossi-Fini sull’immigrazione e a quelle in difesa esclusivamente del matrimonio cattolico eterosessuale. Ci fa pensare al razzismo, al fascismo, al sessismo, che sempre di più si manifestano per quello che sono e cioè come diverse facce di una stessa medaglia.

Cosa c’entra tutto questo con l’amore universale? Il reggae in passato è stato principalmente veicolo di messaggi di liberazione dal razzismo e dal proibizionismo, di rispetto e di amore verso tutto l’esistente, e in questo è riuscito a fare breccia in tutto il mondo e ha dato voce alla cultura giamaicana. Forse qualcuno è escluso dalla “sana ed olistica esistenza nel mondo” che a parole Sizzla afferma? Che strano tipo di olismo e di amore universale ha in mente!

Noi pensiamo che ogni cultura e ogni società debbano innanzitutto fare i conti con se stesse. La Giamaica negli ultimi anni è stata attraversata da molti problemi, non da ultimo le violenze dei ghetti che coinvolgono polizia, ragazzi di strada, gangster sanguinari e in generale il suo tessuto sociale. Spesso i bersagli di questa violenza sono state le donne, i bambini, gli omosessuali.
Una parte del reggae, in particolare gli autori citati ma non solo, si è prestata a veicolare questa cultura di violenza, facendosi forte del fatto che la cultura reggae e quella giamaicana non hanno ancora sviluppato gli anticorpi verso le intolleranze sessuali.
Ma probabilmente questi anticorpi stanno nascendo ora: anche il governo giamaicano ha preso le distanze dalle liriche omofobiche, e ad esempio il grande poeta-cantante dub Linton Kwesi Johnson, per citarne uno, ha descritto questi cantanti come “qualche cretino che accarezza nel senso del pelo i bassi istinti del pubblico”.

Secondo noi il problema è un altro. Il problema è capire perché un locale come il Sottotetto e tanti altri e altre in Italia, così come molti ragazzi e ragazze che frequentano gli spazi sociali, e tante altre persone che noi riteniamo nostri “vicini”, non abbiano voglia o interesse a prendere le distanze definitivamente dal sessismo e dall’omofobia. Forse il Sottotetto e i suoi clienti sotto sotto pensano davvero che l’omosessualità sia innaturale, oppure che l’uomo sia superiore alla donna e che risolvere le discussioni con la forza sia un virile punto d’onore? Anche noi siamo clienti del Sottotetto e più volte ce lo siamo chiesto.
I locali e gli organizzatori dei concerti si trincerano dietro dichiarazioni di facciata come il REGGAE COMPASSIONATE ACT, una velleitaria paginetta scritta nel 2007, in cui Sizzla, Capleton e Beenie Man si impegnano a “non offendere nessuno” e a non cantare più i testi contro i gay, come se fosse una specie di confessione che ti libera dai peccati. E ovviamente i peccati li puoi rifare, e ti puoi confessare di nuovo, tant’è vero che qualche giorno dopo lo stesso Sizzla si prendeva gioco di questo documento risuonando quelle canzoni in Germania e in Italia e lasciando cantare le frasi incriminate ai suoi fan (italiani, che probabilmente non conoscevano neanche il significato di quello che cantavano).

Ci chiediamo, preoccupate e preoccupati, se i virus dell’intolleranza religiosa, del machismo patriarcale, del sessismo misogino e della paura delle differenze non siano tornati tra di noi, magari inconsapevolmente. Ci rifiutiamo di credere che i gestori del Sottotetto senza Sizzla o Capleton non possano andare avanti economicamente: ci viene da pensare più che altro che non abbiano voglia di fare altri conti. Personali, non economici.

Noi chiediamo al Sottotetto, alle e agli amanti del reggae, ai centri sociali italiani, di decidere di fare i conti con la libertà sessuale di ognuna e ognuno di noi. E per questo chiediamo di rinunciare al concerto di Sizzla.

Vorremmo evitare di ricorrere ancora una volta al boicottaggio, facendo finta che il nostro problema sia un cantante del Centro America e non la cultura intollerante che abbiamo ancora dentro noi italiani, bianchi, occidentali.

Bologna, 29 ottobre 2009

Laboratorio Smaschieramenti
Collettivo Figliefemmine
Antagonismogay
Collettivo Clitoristrix femministe e lesbiche
Facciamo Breccia
Fuoricampo Lesbian Group
MIT – Movimento identità transessuale – Bologna
Associazione Comunicattive
QueeRing – Frangette Estreme

 

Per contatti, adesioni, critiche e suggerimenti: infosmaschieramenti@inventati.org

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Tre giorni contro la repressione e la normalizzazione – intervento 2

Tre giorni contro la repressione, la normalizzazione e le nuove forme di disciplinamento dei corpi.

Bologna, 10-12 ottobre 2008.

Immaginario familista, ruolizzazione sociale/sessuale, relazioni. Sabato pomeriggio.

Interveto di Elena Biagini + Intervento di Renato Busarello per Antagonismogay

 


 

Il mimetismo esasperato dall’ansia di normalizzazione ha fatto sì che riproducessimo in ambito lgbtiq l’immaginario familista e sessista della famiglia etero. Oggi che in piena liquidazione del welfare tutto il lavoro di cura e assistenziale sembra tornare sulle spalle delle donne, ricacciate tra le mura domestiche, è più che mai necessario rielaborare una critica alla famiglia come luogo di violenza femminicida lesbo/trans/omofobica di riproduzione dell’eterosessualità obbligatoria e di asservimento del genere femminile.



Il familismo e la marcata ruolizzazione di genere, con quanto si portano dietro di omofobia e violenza sulle donne, sono elemento caratteristici della “cultura” tradizionale non solo dell’Italia ma di tutta l’area mediterranea, ne abbiamo elementi culturali ridondanti per affermarlo, riferimenti scientifici noti, quasi scontati che vanno da quelli storici, concetto di famiglia elaborato nella cultura e nel diritto latini (Cantarella), in cui la stessa parola familia deriva da una radice che è usata anche per i servi e in cui il capofamiglia ha diritto di vita e di morte su moglie e prole, a quelli sociologici (Saraceno) a quelli di storia economica (modello dell’impresa familiare come caratteristico della III Italia, vedi Ginsbourg). Per non soffermarsi inutilmente, tanto il fatto è noto sul concetto giudaico cristiano di famiglia e ancor più cattolico secondo il quale alle donne è imposta l’obbedienza al marito, ai figli e alle figlie al padre, ai servi al padrone.

Qui vogliamo elaborare un’analisi attuale e che veda le soggettività eccentriche alla famiglia stessa come analizzatori, quindi che metta al centro del discorso il sessismo e l’eterosessualità obbligatoria, quello che possiamo definire eterosistema.

Un’analisi attuale ci obbliga a analizzare il familismo nell’ambito di un sistema neoliberista che, per quanto in crisi in questi giorni, è tuttora il sistema dominante sebbene fatiscente.

Il neoliberismo è un sistema che come è noto si basa sull’egemonia del mercato sulla politica e sulla società e che ha quindi tra i suoi fondamenti la riduzione in merce di tutti i servizi che quindi devono essere privatizzati e venduti per chi ha denaro per comprarli, semplicemente scomparire per chi non ha potere d’acquisto. L’ideologia neoliberista ha lavorato e lavora per la distruzione dello stato sociale, di tutte le garanzie che un sistema di welfare, sebbene moderatamente keynesiano, aveva costruito, per quanto riguarda l’Italia, lo smantellamento delle conquiste di diritti sociali frutto delle lotte degli anni ’60 e ’70, scuola e sanità pubbliche, statuto dei lavoratori, pensione pubblica, garanzie per la maternità.

La globalizzazione neoliberista per molti anni, qui come altrove, è stata spacciata come il nuovo, collegata nell’immaginario collettivo ad internet, ai media etc etc. Ma nel nostro paese l’imposizione del neoliberismo ha proceduto parallelamente ad elementi del tutto arcaici: il familismo e le politiche familiste. Più volte FB e una parte consistente del movimento lgbt in questi anni ha analizzato il modello del nord est come laboratorio per politiche di destra poi realizzate in tutto il paese. Questo modello dal punto di vista economico si basa sulla piccola impresa a conduzione familiare, dove i dipendenti sono prioritariamente moglie e figli/e di un padre padrone, si tratta quindi di una forza lavoro che non ha garanzie e non è sindacalizzata. Questo modello inizialmente legato all’area del nord est oggi, dopo che la parcellizzazione del lavoro è ormai avvenuta, la precarizzazione ha investito tutte le generazioni under 40 e la delocalizzazione ha aumentato la disoccupazione e lo sfruttamento, la mancanza di garanzie sociali è divenuta una condizione generalizzata. Nel modello sociale italiano lo stato sociale più ancora che dalle multinazionali dei servizi è stato sostituito da una forma di parziale ritorno all’antico, con il lavoro di cura che torna ad essere addossato in particolare alle donne e la famiglia che resta – ed anzi è stata potenziata – soggetto prioritario del diritto, a discapito, anzitutto dell’autodeterminazione degli individui e degli stili di vita. Anche perché la famiglia, grazie anche all’ideologia cattolica proposta/imposta dalle gerarchie vaticane e supportata pienamente da una classe politica prima succube poi connivente, non è una fotografia sociologica dei legami di cura e solidarietà reciproca esistenti, ma un sistema ideologico che è la base un modello fortemente patriarcale e , a sua volta su questo è basata.


La famiglia è alla base del patriarcato tanto che è il luogo dove comincia e viene commesso il maggior numero di violenze maschili sulle donne, violenze che rappresentano ancora oggi lo strumento più potente di subordinazione delle donne. La precarietà economica, imposta dal sistema neoliberista, ci risospinge dentro la famiglia tutte e tutti a causa della mancanza di garanzie sociali, anche quelle soggettività eccentriche, lesbiche, gay, trans, donne autodeterminate che trovano necessariamente i propri percorsi di liberazione proprio a partire dall’uscita della famiglia d’origine e dal rifiuto del paradigma familista e patriarcale.

La precarizzazione ci risospinge nella famiglia e nella scelta della vita in coppia sia per motivi di sopravvivenza economica sia per la sottrazione di tempi dell’esistenza che sono il tempo della socializzazione, quindi delle relazioni tra soggettività che si scelgono.

La famiglia, che attraverso l’ideologia familista diviene una vera e propria gabbia, è, abbiamo visto, il luogo della violenza che uccide milioni di donne, le brutalizza, le rende “vittime”. Ma la famiglia sappiamo anche essere l’ostacolo più grande e violento ai percorsi di liberazione di lesbiche, gay e trans: attraverso un’educazione che tende a riaffermare il modello patriarcale e la conseguente ruolizzazione di genere, attraverso violenze psicologiche e fisiche che impediscono la realizzazione della personalità a chi “tradisce” le aspettative (quante e quanti di noi ricordano l’adolescenza, quindi una fase della vita caratterizzata da minorità giuridica e dipendenza economica, come il momento più difficile, spesso violento rendono superflui studi sociologici e psicologici che comunque non mancano a conferma di questo), attraverso il senso di colpa, meccanismo innestato profondamente nella cultura cattolica che rende noi stesse portatrici di ciò che gli psicologi chiamano omofobia interiorizzata ma che in sostanza è l’incapacità di molte e molti di noi, ancora sepolti/e nelle belle famiglie italiane, di vivere la propria vita.

In questi ultimi vent’anni ritengo che per assurdo anche il movimento LGBT abbia contribuito a rinforzare la retorica della famiglia così come parallelamente le politiche delle pari opportunità, assunte da gran parte del movimento delle donne, hanno minato la radicalità del discorso femminista. Il fermarsi per molti anni della parte più visibile del movimento sulla tematiche delle unioni civili ha fatto sì che esponenti lgbt abbia fatto propria, non so con quanta consapevolezza la retorica della famiglia come luogo primario degli affetti, della cura e della solidarietà, contribuendo al grande imbroglio ideologico che tende a far dimenticare che la famiglia è una costruzione sociale e come tale mutabile nel tempo e che quella che oggi viene decantata è in parte inesistente in parte rispondente ad un modello patriarcale che produce violenza ed esclusione sociale.
Il fulcro da cui non dobbiamo e non possiamo allontanarci è la forte connessione non solo tra patriarcato e famiglia ma anche tra famiglia e eterosessualità obbligatoria, un sistema che possiamo definire eterosessista oltre che patriarcale per la necessità di sottolineare che alla base dell’oppressione non solo di lesbiche, gay e trans ma di tutte le donne c’è la centralità sociale ed economica del contratto eterosessuale, infatti l’eterosessualità viene costruita e presentata come opzione primaria, giusta, unica e naturale e la famiglia è il suo alveo, il suo ambito di realizzazione. Dal sesso è stato per questo bandito tutto ciò che esce dall’imperativo dell’eterosessualità. Questo è ciò che chiamiamo eterosessualità obbligatoria o meglio regime dell’eterosessualità.

Si deduce, a mio avviso, da tutto ciò che la lotta contro l’eterosessualità obbligatoria, come paradigma culturale egemonico con evidenti ed ineludibili conseguenze politiche e sociali è strettamente legata alla critica alla famiglia, allo svelamento dell’ideologia sottesa e alla lotta al familismo.

Per lo specifico lesbico a tutto ciò si lega fortemente la critica alla maternità obbligatoria e l’attenzione al rischio del controllo sui corpi delle donne e delle lesbiche attraverso le biotecnologie.  Gli eventi politici degli ultimi anni, le campagne fortemente integraliste che hanno prodotto risultati palesi come la legge 40 (di cui non possiamo stancarci di chiedere la cancellazione) e la continua rimessa in discussione della legge 194 e dell’ autodeterminazione delle donne più in generale, rischiano di tirare lesbiche e femministe in lotte di retroguardia.

D’altro canto la perenne battaglia civile per il pacs/unioni civili/dico/cus è stata condotta attraverso la pratica della pacca sulla spalla con i partiti del centro–sinistra che, non sentendosi pressati – e subendo invece pressioni, niente affatto mediate, dalle gerarchie vaticane – non hanno avvertito l’urgenza di spingerla e questo è un argomento che per noi dovrebbe essere prioritario, la rimessa in discussione delle pratiche. Ma soprattutto, intervenendo a livello istituzionale e mediatico quasi unicamente per questo obiettivo, il movimento lgbt, invece di scardinare la gabbia familista, di sottolineare che la famiglia nasconde al suo interno violenza e sopraffazione su donne, lesbiche, gay e trans e che comunque è una costruzione culturale e, in quanto tale, può cambiare e addirittura essere distrutta, ha finito per contribuire a rafforzare la retorica familista di cui gronda la cultura nazionale (e d’oltretevere). Perché? Per non spaventare. Senza accorgerci che spaventiamo lo stesso, solo che la diversità “mostruosa” che rappresentiamo, oltre a scatenare la violenza omo/lesbo/transfobica, non ci assomiglia e non produce trasformazione sociale né culturale: abbiamo contribuito a “spostare a destra” la soglia della “normalità”. E uso la prima persona plurale perché finché un’altra proposta non sarà visibile, questa sarà La Proposta del movimento lgbt. Movimento che ha del tutto trascurato, negli ultimi vent’anni almeno, il piano della proposta culturale, della progettualità trasformativa che possa davvero includere percorsi di liberazione che in concreto accrescano la sostenibilità delle nostre vite. Certo che nel niente culturale, politico e sociale ci attacchiamo anche a proposte calmierate e spesso poco dignitose che arrivano fino ai dicorè, quando le nostre compagne malate sono ringabbiate nella famiglia e noi non abbiamo nemmeno il diritto di parlare con un medico e se questo ci parla ringraziamo, quando chi di noi non ha famiglia cade e cade senza rete fino a rimetterci la vita ( e so che sapete che queste non sono ipotesi), quando subiamo funerali e dissipazioni dei nostri ricordi ad opera di famiglie che non sono mai stati luoghi di cura e solidarietà etc etc. Ma non è scritto in un inesistente diritto naturale che l’unica soluzione è la famiglia e che per noi quindi l’unica soluzione sarebbe l’ingresso nel mondo dei e delle privilegiati a discapito di altri/e e a discapito della nostra “anormalità, del nostro sguardo obliquo, della nostra felicità.

Quel mondo del privilegio, lo sappiamo, è una società patriarcale, classista, razzista, violenta, clericale e familista. E’ un modello sociale dove, ad esempio, la cittadinanza è basata sul sangue, dove si può diventare e restare cittadini/e italiani/e, vivendo all’estero, avendo avuto un solo nonno italiano o, in alcuni casi, un antenato anche più lontano ma al contrario, per gli/le immigrati/e è difficile diventare cittadini/e del nostro paese, anche se sono nati qui ma da genitori stranieri, anche se abitano e lavorano qui. La cittadinanza italiana è un affare di famiglia. [Giovanna Zincone, Familismo legale. Come (non) diventare italiani].

E’ comunque un modello dove molte delle nostre relazioni realmente di cura e di solidarietà non possono essere incluse perché non sono modellate sul paradigma patriarcale della coppia.

Senza dubbio dobbiamo elaborare forme di resistenza collettiva, nella prospettiva di passare dalla resistenza alla liberazione, che rafforzino le esistenze individuali, evidenziando l’importanza di cercare percorsi politici che rendano più forti i percorsi personali. E tutto ciò non riguarda solo lesbiche, gay e trans ma chiunque si ponga fuori dal paradigma patriarcale e familista le femministe in primo luogo, che come abbiamo discusso in un tavolo di FLAT si trovano nella stessa situazione delle lesbiche sia nel rapporto di oppressione, pregno di contraddizioni, con la famiglia d’origine sia nella necessità e nel desiderio di relazioni di cura, solidarietà e piacere da istaurare tra femministe e lesbiche.
Chiudo leggendo un brano di un articolo di Betzy Brown, una lesbica radicale tratto da Lesbian Contradiction, (periodico femminista e lesbico di San Francisco) “La Sfamiglia”.


[…] ciò che voglio è una sorta di sfamiglia. Voglio far parte di un gruppo di amiche speciali








Di Renato Busarello per Antagonismogay.


Condivido integralmente quanto sinteticamente esposto da Elena e voglio partire da alcuni suoi passaggi e interrogativi per agganciare il mio contributo.

Parto da quella affermazione forte che ci chiama in causa: finché un’altra proposta non sarà visibile, questa (la riproduzione mimetica della famiglia) sarà La Proposta del movimento lgbt.


1. Linguaggio.


Se non vogliamo perdere il nostro sguardo obliquo (queer) e venire ricatturati nella linea retta (straight) non possiamo assumere il linguaggio, il discorso e le strutture eteronormative. Come se le parole fossero neutre e il fatto di dire “famiglie” al plurale bastasse a esorcizzarne la carica di disciplinamento e violenza implicita: è mancata tra le altre cose al movimento lgbtiq una riflessione seria sulla periperformatività del linguaggio, sulla sua dimensione produttiva di soggettività, su quanto il linguaggio ci orienti anche sessualmente

(Austin, Eve Sedgwick, Ahmed)

Rubo a Sarah Ahmed ( e alle credo cruciali riflessioni dell’ultimo seminario di Prato) un esempio. La famiglia a tavola e tutti a dire al bambino piccolo: “che bel bimbo, è tutto suo padre”. Il che vuol dire sarà un uomo, sarà etero, sarà padre. In una piccola innocente frase un soggetto, una storia, un destino. Le parole ci orientano, gli oggetti ci orientano anche sessualmente fin da piccoli e prima di nascere.

Torno alla assunzione del linguaggio familista da parte del movimento lgbtq: La rivendicazione di uguaglianza per le coppie gl è presto slittata da un piano di mimetismo tattico o strategico a un piano normativo. Dal “ci sono anche le coppie gl e non si vede perché non debbano avere gli stessi diritti”, allo stigmatizzare apertamente ogni altra forma di sessualità/ desiderio/ affetto come frutto della repressione (salvo poi ipocritamente campare sui soldi delle dark e delle saune..)

(Per inciso un altro tema da ribaltare sarebbe quello dell’affetto: oltre/contro la retorica degli affetti famigliari che ha contagiato la scena queer, dobbiamo rimettere in gioco una politica/etica degli affetti che riguarda le nostre molteplici affezioni in una prospettiva materialista e corporea.)

Il risultato di questa rivendicazione di ripettabilità della coppia è stato non solo di rafforzare la famiglia, ma di creare uno spazio di abiezione dentro lo spazio queer, dove si colloca chi resiste a questa forma di normalizzazione.

Quante volte ci siamo sentiti dire in questi anni, ai tentativi di antagonismogay e altre/i di mettere in discussione i matrimoni, pacs ecc.., e con essi il movimento gl come agenzia normativa, che siamo dei nostalgici degli anni 70, del vespasiano e del cespuglio…Come se si trattasse di andare avanti o tornare al passato (sempre la temporalità patri-lineare)


2.Spazio di soggettivazione lgbtiq e teoria del potere.


Lasciando perdere questa rappresentazione ingenuamente “progressista” della genealogia glbtiq torno alla questione della nostra incapacità di rappresentare un immaginario altro e di porre le questioni centrali:

Come deviano queste nostre linee oblique-queer di soggettivazione su cui siamo, dalla linea retta (straight) della famiglia dell’alleanza, della parentela, della trasmissione del nome, della proprietà? In quale tempo/spazio supplementare, adiacente a quello lineare-familista si costituisce la soggettività lgbtiq? (in a queer time and space, J. Halberstham).

Ne La volontà di sapere, Michel Foucault riconosce che in ogni società le relazioni sessuali danno luogo a forme stabilizzate di matrimonio, parentela e trasmissione dei nomi e dei beni. Inoltre distingue da questo dispositivo di lungo periodo, che regola i rapporti tra i partner sessuali, si occupa di sessualità riproduttiva e la regola (lasciando sullo sfondo del contronatura tutto il resto) un nuovo dispositivo di potere, il dispositivo di sessualità, che incita, insegue, insedia e intensifica i piaceri anormali. E’ espansivo, produttivo e agganciandosi sempre sulle istituzioni disciplinari (famiglia), mette fuori gioco il dispositivo di alleanza.

Tuttavia il dispositivo di alleanza, che possiamo più o meno identificare con le strutture familiari-patriarcali, continua incessantemente a riprodursi e intrecciarsi con il nuovo paradigma.

E’ dentro/contro al dispositivo di sessualità che si produce la proliferazione delle soggettività glbtq, la moltiplicazione e incorporazione dei generi, la sperimentazione di nuove configurazioni della soggettività in un gioco di ribaltamenti e controsoggettivazioni. E’ lo spazio abitato dalle soggettività glbtq, ma anche dalle soggettività femministe e di maschi etero sganciate dal paradigma dell’alleanza/famiglia.

E’ in questo spazio biopolitico (così Giorgio è contento) che si affermano, in un incessante interazione con il reticolo di biopoteri nuove forme di vita, relazione, affetto che oggi giungono potenzialmente a configurare nuove forme di parentela e di alleanza non patriarcali.

Al di là della breve lezioncina, mi interessa sottolineare che lo spazio, la posizione di soggetto, che abitiamo non è affatto un fuori rispetto al potere patriarcale: lo contesta, lo disloca, si costituisce in antagonismo, controsoggettivazione, ma si riarticola incessantemente sulla famiglia, sul mercato, e la famiglia (e lo spazio disciplinare) e il mercato a loro volta si ridislocano per ricatturarlo. Inutile che vi ricordi qui la parabola della soggettività omosessuale che da termine medico ritagliato da un generico contronatura designa una pratica sessuale anormale e patologica, poi un soggetto con una storia un vissuto, una nuova specie (una sineddoche, una parte per il tutto direbbe Parinetto) e infine un soggetto pericoloso. E’ questo soggetto che assume su di sé lo stigma, si controsoggettiva, ribalta e rivendica positivamente i caratteri che la scienza medica gli attribuisce e rivendica i suoi diritti la sua alterità o anche la sua normalità. E’ questo soggetto che si presenta e prende parola al congresso di sessuologia di Sanremo nel 72, per interrompere il discorso del potere che lo parla. E’ questo soggetto infine che, trovato il suo ghetto di socialità mercificata, chiede finalmente di essere integrato e normalizzato. (ecco in sintesi the rise and fall of gay culture).Allora forse, se siamo a questo punto, ci è sfuggito qualcosa e non ci siamo chiesti con quale meccanica questo dispositivo (di sessualità) si interseca con quello di alleanza (famiglia)? In quale modo il nostro spazio-tempo queer si articola con quello patrilineare.

Perché se vogliamo ridefinire delle linee di sovversione-sottrazione-fuga, non possiamo più ingenuamente pensare che il solo fatto di essere lgbtiq sia sovversivo. Semmai ci assegna un potenziale, un gradiente di sovversione e trasformazione che possiamo o meno agire e dispiegare.

Sarah Ahmed (fenomenologia queer) ci propone la metafora del “sentiero ben calpestato”: è il sentiero visibile, già segnato, ma solo perché è stato ripetutamente percorso, che ognuno è portato “naturalmente” a percorrere.

Perché sappiamo bene che il genere è performativo è il risultato della ripetizione di atti, gesti ecc. che producono un effetto di realtà, di superficie, sul nostro corpo (Butler).

Ma che succede se io traccio con le mie orme un altro sentiero? Una linea obliqua? Questa può intersecarsi in qualche punto ancora con il sentiero ben calpestato. Può essere ricalpestata da altre/i e diventare un nuovo sentiero..

La questione diventa in altre parole: su quale piano di consistenza si incontrano le linee di fuga oblique queer individuali? Perché, ci diceva Elena, finché un’altra proposta non sarà visibile, questa (la riproduzione mimetica della famiglia) sarà La Proposta del movimento lgbt.

E non è un problema solo di leggibilità politica delle nostre rivendicazioni, è un problema ontologico.

Abbiamo un altro immaginario, costituiamo altre forme di vita-relazione-affetto? Credo/iamo di sì. Solo che a volte non le nominiamo, o le nominiamo nel linguaggio della norma, presi come siamo a inseguire sempre il discorso normativo, anche per contestarlo, ma sempre in dipendenza da esso.


3. from the cradle to the grave: patriarcato liberale e famiglia patriarcale.

La crisi del welfare, frutto delle lotte del primo movimento operaio e del secondo, di quello femminista ecc. riconsegna il compito di accompagnarci dalla culla alla tomba alla famiglia.

Elena ha toccato questioni molto forti, i vissuti con cui drammaticamente ci confrontiamo: malattia, morte, momenti in cui ci rendiamo conto che tutto quello per cui abbiamo lottato ci viene sottratto. In cui siamo ricondotti/e totalmente alla famiglia di origine o in cui non troviamo altre reti e relazioni alternative a quelle da cui tentiamo di sottrarci. Dov’è la “comunità” queer quando mi ammalo? Dov’è quando una trans viene sepolta vestita da uomo dai suoi cari? Dov’è quando non ho lavoro, non ho casa? Dov’è quando crepo e anche la traccia del mio vissuto queer viene cancellata e resto nella microstoria orale della famiglia come lo zio un po’ matto, un po’ strano, che poveretto ha fatto una brutta fine, ma è meglio non parlarne per non turbare i nipotini?


4. Alternative

provo a dare sostanza a quello che Elena delinea molto precisamente come una:

progettualità trasformativa che possa davvero includere percorsi di liberazione che in concreto accrescano la sostenibilità delle nostre vite.”(grassetto mio)


Sicuramente il reddito di autodeterminazione ( di cui credo ci parlino le a-matrix) è una delle lotte da assumere. Nella prospettiva qui delineata ha numerosi vantaggi:

-risponde al collasso del welfare, ma al tempo stesso ci permette di sottrarci alla famiglia. E senza chiedere più stato, ma più reddito (quindi intervenendo anche sul tema della redistribuzione di plusvalore).

Migliora concretamente la sostenibilità delle nostre vite individuali e allo stesso tempo richiede un percorso collettivo di rivendicazione. In questo momento di crisi potrebbe anche suonare assurdo pensare di chiedere reddito: ma perché invece non ci sembra assurdo che i soldi pubblici per salvare le banche si trovino?

Nel frattempo, per sostenere le resistenze individuali e questa e altre lotte collettive, va veramente pensato a fondo un neomutualismo queer.

Ora vi risparmio un approfondimento su questo terreno.

Dove è finito però quell’appuntamento che ci siamo dati/e al seminario trans di maggio per ripensare delle forme di auto aiuto “comunitario”, casse di resistenza ecc..

Il temine comunità lo metto tra virgolette perché è a sua volta problematico e rimanda alle derive del comunitarismo identitario..anche qui occorre innovare il linguaggio. Parlo provvisoriamente di comunità queer (quasi un ossimoro tipo queer-nation), ma anche questo è un nodo da sciogliere, quello dei confini del “noi”, di un soggetto collettivo che non produca abiezione ai suoi margini…

In pratica però lo stiamo già facendo: chi sostiene Graziella e i tredici (apostati) di san pietro nei processi in corso, se non la rete politica e r-esistenziale che abbiamo attorno? Ovvero la nostra rete di affetti? Che cosa se non la stessa nostra socialità e i nostri consumi possono alimentare e finanziare le lotte anziché le lobby di potere che pretendono di rappresentarci?

 

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Tre giorni contro la repressione e la normalizzazione – intervento 2

Tre giorni contro la repressione, la normalizzazione e le nuove forme di disciplinamento dei corpi.

Bologna, 10-12 ottobre 2008.

Immaginario familista, ruolizzazione sociale/sessuale, relazioni. Sabato pomeriggio.

Interveto di Elena Biagini + Intervento di Renato Busarello per Antagonismogay

 


 

Il mimetismo esasperato dall’ansia di normalizzazione ha fatto sì che riproducessimo in ambito lgbtiq l’immaginario familista e sessista della famiglia etero. Oggi che in piena liquidazione del welfare tutto il lavoro di cura e assistenziale sembra tornare sulle spalle delle donne, ricacciate tra le mura domestiche, è più che mai necessario rielaborare una critica alla famiglia come luogo di violenza femminicida lesbo/trans/omofobica di riproduzione dell’eterosessualità obbligatoria e di asservimento del genere femminile.



Il familismo e la marcata ruolizzazione di genere, con quanto si portano dietro di omofobia e violenza sulle donne, sono elemento caratteristici della “cultura” tradizionale non solo dell’Italia ma di tutta l’area mediterranea, ne abbiamo elementi culturali ridondanti per affermarlo, riferimenti scientifici noti, quasi scontati che vanno da quelli storici, concetto di famiglia elaborato nella cultura e nel diritto latini (Cantarella), in cui la stessa parola familia deriva da una radice che è usata anche per i servi e in cui il capofamiglia ha diritto di vita e di morte su moglie e prole, a quelli sociologici (Saraceno) a quelli di storia economica (modello dell’impresa familiare come caratteristico della III Italia, vedi Ginsbourg). Per non soffermarsi inutilmente, tanto il fatto è noto sul concetto giudaico cristiano di famiglia e ancor più cattolico secondo il quale alle donne è imposta l’obbedienza al marito, ai figli e alle figlie al padre, ai servi al padrone.

Qui vogliamo elaborare un’analisi attuale e che veda le soggettività eccentriche alla famiglia stessa come analizzatori, quindi che metta al centro del discorso il sessismo e l’eterosessualità obbligatoria, quello che possiamo definire eterosistema.

Un’analisi attuale ci obbliga a analizzare il familismo nell’ambito di un sistema neoliberista che, per quanto in crisi in questi giorni, è tuttora il sistema dominante sebbene fatiscente.

Il neoliberismo è un sistema che come è noto si basa sull’egemonia del mercato sulla politica e sulla società e che ha quindi tra i suoi fondamenti la riduzione in merce di tutti i servizi che quindi devono essere privatizzati e venduti per chi ha denaro per comprarli, semplicemente scomparire per chi non ha potere d’acquisto. L’ideologia neoliberista ha lavorato e lavora per la distruzione dello stato sociale, di tutte le garanzie che un sistema di welfare, sebbene moderatamente keynesiano, aveva costruito, per quanto riguarda l’Italia, lo smantellamento delle conquiste di diritti sociali frutto delle lotte degli anni ’60 e ’70, scuola e sanità pubbliche, statuto dei lavoratori, pensione pubblica, garanzie per la maternità.

La globalizzazione neoliberista per molti anni, qui come altrove, è stata spacciata come il nuovo, collegata nell’immaginario collettivo ad internet, ai media etc etc. Ma nel nostro paese l’imposizione del neoliberismo ha proceduto parallelamente ad elementi del tutto arcaici: il familismo e le politiche familiste. Più volte FB e una parte consistente del movimento lgbt in questi anni ha analizzato il modello del nord est come laboratorio per politiche di destra poi realizzate in tutto il paese. Questo modello dal punto di vista economico si basa sulla piccola impresa a conduzione familiare, dove i dipendenti sono prioritariamente moglie e figli/e di un padre padrone, si tratta quindi di una forza lavoro che non ha garanzie e non è sindacalizzata. Questo modello inizialmente legato all’area del nord est oggi, dopo che la parcellizzazione del lavoro è ormai avvenuta, la precarizzazione ha investito tutte le generazioni under 40 e la delocalizzazione ha aumentato la disoccupazione e lo sfruttamento, la mancanza di garanzie sociali è divenuta una condizione generalizzata. Nel modello sociale italiano lo stato sociale più ancora che dalle multinazionali dei servizi è stato sostituito da una forma di parziale ritorno all’antico, con il lavoro di cura che torna ad essere addossato in particolare alle donne e la famiglia che resta – ed anzi è stata potenziata – soggetto prioritario del diritto, a discapito, anzitutto dell’autodeterminazione degli individui e degli stili di vita. Anche perché la famiglia, grazie anche all’ideologia cattolica proposta/imposta dalle gerarchie vaticane e supportata pienamente da una classe politica prima succube poi connivente, non è una fotografia sociologica dei legami di cura e solidarietà reciproca esistenti, ma un sistema ideologico che è la base un modello fortemente patriarcale e , a sua volta su questo è basata.


La famiglia è alla base del patriarcato tanto che è il luogo dove comincia e viene commesso il maggior numero di violenze maschili sulle donne, violenze che rappresentano ancora oggi lo strumento più potente di subordinazione delle donne. La precarietà economica, imposta dal sistema neoliberista, ci risospinge dentro la famiglia tutte e tutti a causa della mancanza di garanzie sociali, anche quelle soggettività eccentriche, lesbiche, gay, trans, donne autodeterminate che trovano necessariamente i propri percorsi di liberazione proprio a partire dall’uscita della famiglia d’origine e dal rifiuto del paradigma familista e patriarcale.

La precarizzazione ci risospinge nella famiglia e nella scelta della vita in coppia sia per motivi di sopravvivenza economica sia per la sottrazione di tempi dell’esistenza che sono il tempo della socializzazione, quindi delle relazioni tra soggettività che si scelgono.

La famiglia, che attraverso l’ideologia familista diviene una vera e propria gabbia, è, abbiamo visto, il luogo della violenza che uccide milioni di donne, le brutalizza, le rende “vittime”. Ma la famiglia sappiamo anche essere l’ostacolo più grande e violento ai percorsi di liberazione di lesbiche, gay e trans: attraverso un’educazione che tende a riaffermare il modello patriarcale e la conseguente ruolizzazione di genere, attraverso violenze psicologiche e fisiche che impediscono la realizzazione della personalità a chi “tradisce” le aspettative (quante e quanti di noi ricordano l’adolescenza, quindi una fase della vita caratterizzata da minorità giuridica e dipendenza economica, come il momento più difficile, spesso violento rendono superflui studi sociologici e psicologici che comunque non mancano a conferma di questo), attraverso il senso di colpa, meccanismo innestato profondamente nella cultura cattolica che rende noi stesse portatrici di ciò che gli psicologi chiamano omofobia interiorizzata ma che in sostanza è l’incapacità di molte e molti di noi, ancora sepolti/e nelle belle famiglie italiane, di vivere la propria vita.

In questi ultimi vent’anni ritengo che per assurdo anche il movimento LGBT abbia contribuito a rinforzare la retorica della famiglia così come parallelamente le politiche delle pari opportunità, assunte da gran parte del movimento delle donne, hanno minato la radicalità del discorso femminista. Il fermarsi per molti anni della parte più visibile del movimento sulla tematiche delle unioni civili ha fatto sì che esponenti lgbt abbia fatto propria, non so con quanta consapevolezza la retorica della famiglia come luogo primario degli affetti, della cura e della solidarietà, contribuendo al grande imbroglio ideologico che tende a far dimenticare che la famiglia è una costruzione sociale e come tale mutabile nel tempo e che quella che oggi viene decantata è in parte inesistente in parte rispondente ad un modello patriarcale che produce violenza ed esclusione sociale.
Il fulcro da cui non dobbiamo e non possiamo allontanarci è la forte connessione non solo tra patriarcato e famiglia ma anche tra famiglia e eterosessualità obbligatoria, un sistema che possiamo definire eterosessista oltre che patriarcale per la necessità di sottolineare che alla base dell’oppressione non solo di lesbiche, gay e trans ma di tutte le donne c’è la centralità sociale ed economica del contratto eterosessuale, infatti l’eterosessualità viene costruita e presentata come opzione primaria, giusta, unica e naturale e la famiglia è il suo alveo, il suo ambito di realizzazione. Dal sesso è stato per questo bandito tutto ciò che esce dall’imperativo dell’eterosessualità. Questo è ciò che chiamiamo eterosessualità obbligatoria o meglio regime dell’eterosessualità.

Si deduce, a mio avviso, da tutto ciò che la lotta contro l’eterosessualità obbligatoria, come paradigma culturale egemonico con evidenti ed ineludibili conseguenze politiche e sociali è strettamente legata alla critica alla famiglia, allo svelamento dell’ideologia sottesa e alla lotta al familismo.

Per lo specifico lesbico a tutto ciò si lega fortemente la critica alla maternità obbligatoria e l’attenzione al rischio del controllo sui corpi delle donne e delle lesbiche attraverso le biotecnologie.  Gli eventi politici degli ultimi anni, le campagne fortemente integraliste che hanno prodotto risultati palesi come la legge 40 (di cui non possiamo stancarci di chiedere la cancellazione) e la continua rimessa in discussione della legge 194 e dell’ autodeterminazione delle donne più in generale, rischiano di tirare lesbiche e femministe in lotte di retroguardia.

D’altro canto la perenne battaglia civile per il pacs/unioni civili/dico/cus è stata condotta attraverso la pratica della pacca sulla spalla con i partiti del centro–sinistra che, non sentendosi pressati – e subendo invece pressioni, niente affatto mediate, dalle gerarchie vaticane – non hanno avvertito l’urgenza di spingerla e questo è un argomento che per noi dovrebbe essere prioritario, la rimessa in discussione delle pratiche. Ma soprattutto, intervenendo a livello istituzionale e mediatico quasi unicamente per questo obiettivo, il movimento lgbt, invece di scardinare la gabbia familista, di sottolineare che la famiglia nasconde al suo interno violenza e sopraffazione su donne, lesbiche, gay e trans e che comunque è una costruzione culturale e, in quanto tale, può cambiare e addirittura essere distrutta, ha finito per contribuire a rafforzare la retorica familista di cui gronda la cultura nazionale (e d’oltretevere). Perché? Per non spaventare. Senza accorgerci che spaventiamo lo stesso, solo che la diversità “mostruosa” che rappresentiamo, oltre a scatenare la violenza omo/lesbo/transfobica, non ci assomiglia e non produce trasformazione sociale né culturale: abbiamo contribuito a “spostare a destra” la soglia della “normalità”. E uso la prima persona plurale perché finché un’altra proposta non sarà visibile, questa sarà La Proposta del movimento lgbt. Movimento che ha del tutto trascurato, negli ultimi vent’anni almeno, il piano della proposta culturale, della progettualità trasformativa che possa davvero includere percorsi di liberazione che in concreto accrescano la sostenibilità delle nostre vite. Certo che nel niente culturale, politico e sociale ci attacchiamo anche a proposte calmierate e spesso poco dignitose che arrivano fino ai dicorè, quando le nostre compagne malate sono ringabbiate nella famiglia e noi non abbiamo nemmeno il diritto di parlare con un medico e se questo ci parla ringraziamo, quando chi di noi non ha famiglia cade e cade senza rete fino a rimetterci la vita ( e so che sapete che queste non sono ipotesi), quando subiamo funerali e dissipazioni dei nostri ricordi ad opera di famiglie che non sono mai stati luoghi di cura e solidarietà etc etc. Ma non è scritto in un inesistente diritto naturale che l’unica soluzione è la famiglia e che per noi quindi l’unica soluzione sarebbe l’ingresso nel mondo dei e delle privilegiati a discapito di altri/e e a discapito della nostra “anormalità, del nostro sguardo obliquo, della nostra felicità.

Quel mondo del privilegio, lo sappiamo, è una società patriarcale, classista, razzista, violenta, clericale e familista. E’ un modello sociale dove, ad esempio, la cittadinanza è basata sul sangue, dove si può diventare e restare cittadini/e italiani/e, vivendo all’estero, avendo avuto un solo nonno italiano o, in alcuni casi, un antenato anche più lontano ma al contrario, per gli/le immigrati/e è difficile diventare cittadini/e del nostro paese, anche se sono nati qui ma da genitori stranieri, anche se abitano e lavorano qui. La cittadinanza italiana è un affare di famiglia. [Giovanna Zincone, Familismo legale. Come (non) diventare italiani].

E’ comunque un modello dove molte delle nostre relazioni realmente di cura e di solidarietà non possono essere incluse perché non sono modellate sul paradigma patriarcale della coppia.

Senza dubbio dobbiamo elaborare forme di resistenza collettiva, nella prospettiva di passare dalla resistenza alla liberazione, che rafforzino le esistenze individuali, evidenziando l’importanza di cercare percorsi politici che rendano più forti i percorsi personali. E tutto ciò non riguarda solo lesbiche, gay e trans ma chiunque si ponga fuori dal paradigma patriarcale e familista le femministe in primo luogo, che come abbiamo discusso in un tavolo di FLAT si trovano nella stessa situazione delle lesbiche sia nel rapporto di oppressione, pregno di contraddizioni, con la famiglia d’origine sia nella necessità e nel desiderio di relazioni di cura, solidarietà e piacere da istaurare tra femministe e lesbiche.
Chiudo leggendo un brano di un articolo di Betzy Brown, una lesbica radicale tratto da Lesbian Contradiction, (periodico femminista e lesbico di San Francisco) “La Sfamiglia”.


[…] ciò che voglio è una sorta di sfamiglia. Voglio far parte di un gruppo di amiche speciali








Di Renato Busarello per Antagonismogay.


Condivido integralmente quanto sinteticamente esposto da Elena e voglio partire da alcuni suoi passaggi e interrogativi per agganciare il mio contributo.

Parto da quella affermazione forte che ci chiama in causa: finché un’altra proposta non sarà visibile, questa (la riproduzione mimetica della famiglia) sarà La Proposta del movimento lgbt.


1. Linguaggio.


Se non vogliamo perdere il nostro sguardo obliquo (queer) e venire ricatturati nella linea retta (straight) non possiamo assumere il linguaggio, il discorso e le strutture eteronormative. Come se le parole fossero neutre e il fatto di dire “famiglie” al plurale bastasse a esorcizzarne la carica di disciplinamento e violenza implicita: è mancata tra le altre cose al movimento lgbtiq una riflessione seria sulla periperformatività del linguaggio, sulla sua dimensione produttiva di soggettività, su quanto il linguaggio ci orienti anche sessualmente

(Austin, Eve Sedgwick, Ahmed)

Rubo a Sarah Ahmed ( e alle credo cruciali riflessioni dell’ultimo seminario di Prato) un esempio. La famiglia a tavola e tutti a dire al bambino piccolo: “che bel bimbo, è tutto suo padre”. Il che vuol dire sarà un uomo, sarà etero, sarà padre. In una piccola innocente frase un soggetto, una storia, un destino. Le parole ci orientano, gli oggetti ci orientano anche sessualmente fin da piccoli e prima di nascere.

Torno alla assunzione del linguaggio familista da parte del movimento lgbtq: La rivendicazione di uguaglianza per le coppie gl è presto slittata da un piano di mimetismo tattico o strategico a un piano normativo. Dal “ci sono anche le coppie gl e non si vede perché non debbano avere gli stessi diritti”, allo stigmatizzare apertamente ogni altra forma di sessualità/ desiderio/ affetto come frutto della repressione (salvo poi ipocritamente campare sui soldi delle dark e delle saune..)

(Per inciso un altro tema da ribaltare sarebbe quello dell’affetto: oltre/contro la retorica degli affetti famigliari che ha contagiato la scena queer, dobbiamo rimettere in gioco una politica/etica degli affetti che riguarda le nostre molteplici affezioni in una prospettiva materialista e corporea.)

Il risultato di questa rivendicazione di ripettabilità della coppia è stato non solo di rafforzare la famiglia, ma di creare uno spazio di abiezione dentro lo spazio queer, dove si colloca chi resiste a questa forma di normalizzazione.

Quante volte ci siamo sentiti dire in questi anni, ai tentativi di antagonismogay e altre/i di mettere in discussione i matrimoni, pacs ecc.., e con essi il movimento gl come agenzia normativa, che siamo dei nostalgici degli anni 70, del vespasiano e del cespuglio…Come se si trattasse di andare avanti o tornare al passato (sempre la temporalità patri-lineare)


2.Spazio di soggettivazione lgbtiq e teoria del potere.


Lasciando perdere questa rappresentazione ingenuamente “progressista” della genealogia glbtiq torno alla questione della nostra incapacità di rappresentare un immaginario altro e di porre le questioni centrali:

Come deviano queste nostre linee oblique-queer di soggettivazione su cui siamo, dalla linea retta (straight) della famiglia dell’alleanza, della parentela, della trasmissione del nome, della proprietà? In quale tempo/spazio supplementare, adiacente a quello lineare-familista si costituisce la soggettività lgbtiq? (in a queer time and space, J. Halberstham).

Ne La volontà di sapere, Michel Foucault riconosce che in ogni società le relazioni sessuali danno luogo a forme stabilizzate di matrimonio, parentela e trasmissione dei nomi e dei beni. Inoltre distingue da questo dispositivo di lungo periodo, che regola i rapporti tra i partner sessuali, si occupa di sessualità riproduttiva e la regola (lasciando sullo sfondo del contronatura tutto il resto) un nuovo dispositivo di potere, il dispositivo di sessualità, che incita, insegue, insedia e intensifica i piaceri anormali. E’ espansivo, produttivo e agganciandosi sempre sulle istituzioni disciplinari (famiglia), mette fuori gioco il dispositivo di alleanza.

Tuttavia il dispositivo di alleanza, che possiamo più o meno identificare con le strutture familiari-patriarcali, continua incessantemente a riprodursi e intrecciarsi con il nuovo paradigma.

E’ dentro/contro al dispositivo di sessualità che si produce la proliferazione delle soggettività glbtq, la moltiplicazione e incorporazione dei generi, la sperimentazione di nuove configurazioni della soggettività in un gioco di ribaltamenti e controsoggettivazioni. E’ lo spazio abitato dalle soggettività glbtq, ma anche dalle soggettività femministe e di maschi etero sganciate dal paradigma dell’alleanza/famiglia.

E’ in questo spazio biopolitico (così Giorgio è contento) che si affermano, in un incessante interazione con il reticolo di biopoteri nuove forme di vita, relazione, affetto che oggi giungono potenzialmente a configurare nuove forme di parentela e di alleanza non patriarcali.

Al di là della breve lezioncina, mi interessa sottolineare che lo spazio, la posizione di soggetto, che abitiamo non è affatto un fuori rispetto al potere patriarcale: lo contesta, lo disloca, si costituisce in antagonismo, controsoggettivazione, ma si riarticola incessantemente sulla famiglia, sul mercato, e la famiglia (e lo spazio disciplinare) e il mercato a loro volta si ridislocano per ricatturarlo. Inutile che vi ricordi qui la parabola della soggettività omosessuale che da termine medico ritagliato da un generico contronatura designa una pratica sessuale anormale e patologica, poi un soggetto con una storia un vissuto, una nuova specie (una sineddoche, una parte per il tutto direbbe Parinetto) e infine un soggetto pericoloso. E’ questo soggetto che assume su di sé lo stigma, si controsoggettiva, ribalta e rivendica positivamente i caratteri che la scienza medica gli attribuisce e rivendica i suoi diritti la sua alterità o anche la sua normalità. E’ questo soggetto che si presenta e prende parola al congresso di sessuologia di Sanremo nel 72, per interrompere il discorso del potere che lo parla. E’ questo soggetto infine che, trovato il suo ghetto di socialità mercificata, chiede finalmente di essere integrato e normalizzato. (ecco in sintesi the rise and fall of gay culture).Allora forse, se siamo a questo punto, ci è sfuggito qualcosa e non ci siamo chiesti con quale meccanica questo dispositivo (di sessualità) si interseca con quello di alleanza (famiglia)? In quale modo il nostro spazio-tempo queer si articola con quello patrilineare.

Perché se vogliamo ridefinire delle linee di sovversione-sottrazione-fuga, non possiamo più ingenuamente pensare che il solo fatto di essere lgbtiq sia sovversivo. Semmai ci assegna un potenziale, un gradiente di sovversione e trasformazione che possiamo o meno agire e dispiegare.

Sarah Ahmed (fenomenologia queer) ci propone la metafora del “sentiero ben calpestato”: è il sentiero visibile, già segnato, ma solo perché è stato ripetutamente percorso, che ognuno è portato “naturalmente” a percorrere.

Perché sappiamo bene che il genere è performativo è il risultato della ripetizione di atti, gesti ecc. che producono un effetto di realtà, di superficie, sul nostro corpo (Butler).

Ma che succede se io traccio con le mie orme un altro sentiero? Una linea obliqua? Questa può intersecarsi in qualche punto ancora con il sentiero ben calpestato. Può essere ricalpestata da altre/i e diventare un nuovo sentiero..

La questione diventa in altre parole: su quale piano di consistenza si incontrano le linee di fuga oblique queer individuali? Perché, ci diceva Elena, finché un’altra proposta non sarà visibile, questa (la riproduzione mimetica della famiglia) sarà La Proposta del movimento lgbt.

E non è un problema solo di leggibilità politica delle nostre rivendicazioni, è un problema ontologico.

Abbiamo un altro immaginario, costituiamo altre forme di vita-relazione-affetto? Credo/iamo di sì. Solo che a volte non le nominiamo, o le nominiamo nel linguaggio della norma, presi come siamo a inseguire sempre il discorso normativo, anche per contestarlo, ma sempre in dipendenza da esso.


3. from the cradle to the grave: patriarcato liberale e famiglia patriarcale.

La crisi del welfare, frutto delle lotte del primo movimento operaio e del secondo, di quello femminista ecc. riconsegna il compito di accompagnarci dalla culla alla tomba alla famiglia.

Elena ha toccato questioni molto forti, i vissuti con cui drammaticamente ci confrontiamo: malattia, morte, momenti in cui ci rendiamo conto che tutto quello per cui abbiamo lottato ci viene sottratto. In cui siamo ricondotti/e totalmente alla famiglia di origine o in cui non troviamo altre reti e relazioni alternative a quelle da cui tentiamo di sottrarci. Dov’è la “comunità” queer quando mi ammalo? Dov’è quando una trans viene sepolta vestita da uomo dai suoi cari? Dov’è quando non ho lavoro, non ho casa? Dov’è quando crepo e anche la traccia del mio vissuto queer viene cancellata e resto nella microstoria orale della famiglia come lo zio un po’ matto, un po’ strano, che poveretto ha fatto una brutta fine, ma è meglio non parlarne per non turbare i nipotini?


4. Alternative

provo a dare sostanza a quello che Elena delinea molto precisamente come una:

progettualità trasformativa che possa davvero includere percorsi di liberazione che in concreto accrescano la sostenibilità delle nostre vite.”(grassetto mio)


Sicuramente il reddito di autodeterminazione ( di cui credo ci parlino le a-matrix) è una delle lotte da assumere. Nella prospettiva qui delineata ha numerosi vantaggi:

-risponde al collasso del welfare, ma al tempo stesso ci permette di sottrarci alla famiglia. E senza chiedere più stato, ma più reddito (quindi intervenendo anche sul tema della redistribuzione di plusvalore).

Migliora concretamente la sostenibilità delle nostre vite individuali e allo stesso tempo richiede un percorso collettivo di rivendicazione. In questo momento di crisi potrebbe anche suonare assurdo pensare di chiedere reddito: ma perché invece non ci sembra assurdo che i soldi pubblici per salvare le banche si trovino?

Nel frattempo, per sostenere le resistenze individuali e questa e altre lotte collettive, va veramente pensato a fondo un neomutualismo queer.

Ora vi risparmio un approfondimento su questo terreno.

Dove è finito però quell’appuntamento che ci siamo dati/e al seminario trans di maggio per ripensare delle forme di auto aiuto “comunitario”, casse di resistenza ecc..

Il temine comunità lo metto tra virgolette perché è a sua volta problematico e rimanda alle derive del comunitarismo identitario..anche qui occorre innovare il linguaggio. Parlo provvisoriamente di comunità queer (quasi un ossimoro tipo queer-nation), ma anche questo è un nodo da sciogliere, quello dei confini del “noi”, di un soggetto collettivo che non produca abiezione ai suoi margini…

In pratica però lo stiamo già facendo: chi sostiene Graziella e i tredici (apostati) di san pietro nei processi in corso, se non la rete politica e r-esistenziale che abbiamo attorno? Ovvero la nostra rete di affetti? Che cosa se non la stessa nostra socialità e i nostri consumi possono alimentare e finanziare le lotte anziché le lobby di potere che pretendono di rappresentarci?

 

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Tre giorni contro la repressione e la normalizzazione dei corpi – intervento 1

Tre giorni contro la repressione, la normalizzazione e le nuove forme di disciplinamento dei corpi.

Bologna, 10-12 ottobre 2008.

 

Sessione 3 – Tras/lesbo/omofobia come espressione di violenza, sessismo e ridefinizione del patriarcato. Sala del Baraccano, 12 ottobre 2008

"La ricerca e le lotte contro trans/lesbo/omofobia condotte in questi anni possono/devono intrecciarsi con il lavoro operato dal movimento lesbofemminista sul tema violenza, sessismo, razzismo.

La messa in crisi del patriarcato ad opera delle soggettività femministe e lgbtiq ha generato una reazione violenta e una ridefinizione delle strutture sociali che lo sostengono. La contestazione del potere maschile- eterosessuale ha aperto spazi per le soggettività altre, ma cionondimeno non è cessata la violenza, né il tentativo di riaffermare incessantemente quel potere.

Importante in questo senso anche il dibattito suscitato dai primi gruppi misti (gay-bi-trans-queer) sulla costruzione del maschile e la critica della violenza sessuata."

Intervento a cura del Laboratorio Smaschieramenti – Bologna

(Alessia Acquistapace)

 

Smaschieramenti è un laboratorio sul maschile composto da persone di ogni genere e orientamento, ci sono anche donne, ci sono state trans, persone che hanno attualmente relazioni eterosessuali e omosessuali ecc.

Mi perdonerete se in questo intervento parlerò a lungo di noi, del laboratorio: c’è uno slogan, mi pare delle donne di Trama di terre, un’associazione di donne italiane e migranti, alla manifestazione del 24 novembre scorso, che dice: "La violenza contro le donne non ha colore, né etnia né religione, ha solamente un sesso" E possiamo aggiungere che la violenza contro lesbiche, gay e trans non ha colore, ma ha solamente, o prevalentemente, un genere, che è quello maschile. E’ in questo senso che pensiamo che l’esperienza di un laboratorio sul maschile possa essere interessante per l’argomento di questa sessione.

Per noi quella della violenza contro le donne, lesbiche, gay e trans, è un emergenza virilista, e noi cerchiamo di smaschierare-smascherare e quindi neutralizzare il virilismo.

Il laboratorio non è un gruppo di autocoscienza, ha avuto da subito l’obiettivo di agire pubblicamente e politicamente.

Però di fatto per riflettere sul maschile siamo partite da noi, dalle nostre esperienze – e da dove sennò?! Ci siamo accorti/e anzi che senza partire da sé non riuscivamo a ragionare, che ciò di cui stavamo parlando ci sfuggiva continuamente di mano. Ci siamo accorte anche (uso il maschile e il femminile indifferentemente per i plurali) che il desiderio che ci spingeva a partecipare era tanto quello di cambiare le cose quanto quello di cambiare noi stesse e noi stessi.

Smaschieramenti è nato la scorsa primavera da un’idea del collettivo Antagonismogay di Bologna, e risponde a un’esigenza nata con la manifestazione delle donne del 24 novembre 2007.

In quell’occasione le donne hanno deciso di fare un corteo di donne, senza uomini, e non hanno fatto eccezione per i compagni gay.

Dunque anche i gay sono uomini?!

I compagni di Antagonismo hanno ritenuto che quella manifestazione interpellasse le altre soggettività: gay, bisex, trans, queer e eterosessuali non conformi ai modelli eterosessisti… Tutte soggettività che sono in qualche modo implicate nel maschile e nella sua costruzione sociale e culturale, tutte possibilmente complici.

In realtà come ho detto nel laboratorio ci sono anche donne e lesbiche: perché noi non siamo estranee alla costruzione del maschile, tutte abbiamo a che fare con i maschi, e con l’immaginario maschile dentro e fuori di noi. E il fatto di essere uno spazio misto è stato per noi motivo di arricchimento. Antagonismogay in questi anni ha creato molti momenti culturali e ludici nei quali la presenza mista non si traduceva nello spazio neutro del maschile-eterosessuale, ma creava davvero, anche solo per una serata, un mondo abitato dalla molteplicità dei generi. Questa dinamica positiva l’abbiamo ritrovata anche nel laboratorio.

La riflessione del laboratorio è partita con i maschi, in particolare i gay, che si domandavano quali fossero le proprie complicità con la violenza maschile (a tutti i livelli, anche i più impliciti, nascosti)

Ma poi abbiamo pensato che il 24 novembre andasse oltre questo, e che interpellasse gli uomini non tanto in direzione di una presa di distanza dalla violenza maschile, quanto piuttosto di un assunzione. Assumere la violenza agita come un problema del proprio genere. Proprio come fanno le donne con la violenza subita.

Assumere quindi la violenza come un problema di genere, un problema del genere maschile.

Ma il problema è proprio che il maschile fatica a pensarsi come genere. Il maschile è esattamente ciò che non viene mai definito per poter definire tutti gli altri e le altre.

Quindi uno degli intenti del laboratorio Smaschieramenti è rafforzare e moltiplicare gli sguardi eccentrici sul maschile.

L’idea è che ci siano molti modi in cui individualmente ognuno e anche ognuna di noi cerca ogni giorno di criticare, distanziarsi, ricollocarsi rispetto al maschile eterosessuale dominante, ma il passo che sentivamo di dover fare era quello di mettere in comune queste pratiche micropolitiche e dargli voce, dargli appunto un senso politico.

In tutto ciò il nostro obiettivo non è creare un altro maschile ‘buono’, alternativo all’altro.

Anzi, proprio ragionando su questo ci siamo accorte che sentiamo il bisogno di uscire dai binarismi: maschile/femminile, omosessuale/eterosessuale, attivo/passivo… Non vogliamo semplicemente ribaltare queste categorie, non ci basta nemmeno rivendicare un continuum di posizionamenti fra le due polarità. Noi vorremmo poter esistere anche al di fuori di questa linea retta tracciata tra due poli comunque imposti e convenzionali, poterci collocare altrove, essere qualcosa di altro, non qualcosa a metà, o a tre quarti… fra i due poli.

L’esperienza delle/degli intersessuali è emblematica a riguardo.

D’altra parte i modelli maschili e femminili esistono, e si sono rigenerati e riadattati alla contemporaneità (noi non siamo tanto convinte che il maschile sia in crisi). Nessuno/a di noi può pensare di far finta che questi modelli non esistano semplicemente dichiarando il tramonto delle identità, o operando una decostruzione puramente intellettuale.

Una socializzazione diversa per i maschi e per le femmine esiste, è esistita dolorosamente nelle nostre vite, quindi noi parliamo assolutamente da soggetti situati, come diceva Nicoletta ieri.

Il nostro desiderio è di uscire dai dualismi – se poi si debba arrivare fare senza le categorie di genere, se si debbano invertarne sempre di nuove per ingolfare la macchina o se si debba lottare per tenercele strette… non lo sappiamo! stiamo discutendo molto su questo.

Però per esempio nel laboratorio ci siamo accorte che anche noi (qui intendo "noi" froce) riproduciamo i dualismi e gli stereotipi. Per esempio quando, di fronte al raro spettacolo di un maschio non eterosessista, o che non veste i caratteri della virilità tradizionale, subito gli appioppiamo l’etichetta di gay, o al massimo di non-ancora-gay. "Quanto ci metterà a capire che è gay ‘sto qua?!"

In questo modo, noi stesse parliamo una lingua che nega possibilità di esistenza a una soggettività maschile eterosessuale non conforme, non eterossessita o come la vogliamo chiamare.

Ho detto soggettività maschile "eterossessuale", anche se in genere quando uno (o una) mette seriamente in discussione il maschile (il femminile), poi finisce per mettere in discussione anche la "monosessualità", e quindi non esclude dal proprio desiderio le persone del proprio sesso, e quindi forse non si può più dire "eterossessuale" a livello di attitudini sessuali… Ma insomma questo non vuol dire che dobbiamo forzare simbolicamente le persone di sesso maschile che non vogliono vestire la virilità normativa a indossare l’identità gay. Perchè questo è quello che fa esattamente il discorso eteronormativo: o sei un vero uomo o sei una checca.

Vorremo creare uno spazio di identità includente, freak, queer… come volete chiamarla… che sia includente per tutte/i quelli che si vogliono collocare criticamente rispetto all’eteronormatività.

E al di là della discussione su cosa dobbiamo farne delle categorie – gettarle alle ortiche o tenercele strette – abbiamo pensato che, di fatto, le esperienze, le lotte, le pratiche di alcune realtà del movimento gltq che sono qui oggi sono diventate molto più includenti, miste, senza rinunciare alle proprie differenze. Pensiamo alla Breccia, all’incontro con Leslie Fainberg all’atlantide, che io personalmente ricordo con molta emozione…

Renato ha detto ieri che non possiamo più ingenuamente pensare che il solo fatto di essere lesbiche gay trans queer sia sovversivo di per sè, ma che semmai ci assegna un potenziale, un gradiente di sovversione e trasformazione che possiamo o meno agire e dispiegare.

La nostra idea è che il movimento gltq, piuttosto che rivendicare diritti per una o più ‘minoranze’, possa proporre a tutti e a tutte il tentativo di un progetto generale e alternativo di vita sociale, una liberazione per tutte/i.

Ad esempio ieri si parlava dell’idea di creare reti di auto aiuto e di sostegno degli aspetti anche più materiali delle nostre vite, che siano alternative concrete alla famiglia patriarcale, come diceva Renato… o dell’idea di valorizzare e raccontare quelle che già esistono, come diceva Elena: ecco questo è un progetto alternativo al familismo patriarcale, alla coppia coniugale o simil-coniugale, che parla a tutte e tutti.

La prospettiva mista (e non idifferenziata) del nostro laboratorio vorrebbe andare in questa direzione, e noi almeno in questi mesi abbiamo sperimentato che questa prospettiva funziona, ci piace nel senso che diceva Luki prima, ci sta bene addosso, ci arricchisce.

 

 

 

Per tornare a occuparci più da vicino del tema di questa sessione:

Il patriarcato è davvero in crisi? Stiamo assistendo ‘solo’ alla reazione violenta del macho che si sente provocato e minacciato dall’insubordinazione femminista-gay-lesbica-trans? O dall’insubordinazione dei migranti, soggetti ex coloniali che invadono il suolo patrio?

 

O è (anche) qualcosa d’altro, per esempio, normalizzazione galoppante?

– Dobbiamo diventare tutti maschi di successo che ce l’hanno duro ma che hanno la pelle liscia, uomini che non devono chiedere mai al punto che si prendono addirittura cura del proprio corpo.

– Dobbiamo diventare tutte donne di successo, fighe, magre, sempre giovani ma anche capaci di guidare un macchinone e soprattutto determinate a lavorare 12 ore al giorno per fare carriera e comandare…

Noi non crediamo che la femminizzazione-omosessualizzazione dell’immaginario del consumo sia indice di una crisi del maschio, tutt’altro.

Il mercato – sia quello del consumo che quello del lavoro – incitano alla femminilizzazione, all’omosessualizzazione, al giovanilismo proprio per aumentare i consumi e aumentare lo sfruttamento: come dire, niente di lusinghiero per le donne, per gli omosessuali… che infatti nonostante ciò continuano a essere menate/i dentro e fuori dalle case.

 

Questo è un primo punto che proponiamo alla riflessione. Il secondo è che negli ultimi anni c’è questo fenomeno strano che ci rubano le parole, i segni.

Hanno iniziato chiamando le guerre missioni di pace. Poi pensate a come la parola violenza è stata snaturata: ormai in questo paese fischiare un politico è violenza! "Violenza inaccettabile" dicono quando gli esprimono solidarietà, a uno che è stato fischiato, mica malmenato. Persino le donne del 24 novembre sono state definite violente perché hanno occupato il palco di La7 ! Ormai si chiama violenza l’insubordinazione sociale. E’ un problema serio questo, che ci rubano le parole.

E con lo stesso meccanismo anche alcune immagini, alcuni segni ci sono stati sottratti: per esempio, è venuto meno il paramentro sopracciglia. La depilazione maschile non è più segno di una critica alla virilità, anzi è segno di massima conformizzazione a una virilità moderna, alla moda, al passo coi tempi. Al tempo stesso, il modello del gay palestrato viene proposto/imposto a tutta la categoria appunto perché è uno che consuma di più, spende di più.

Forse è un po’ con lo stesso meccanismo che ultimamente hanno cercato di trasformare la violenza di genere in questione di ordine pubblico, ad esempio con la proposta di polizia gay friendly che ribadisce che gay vuol dire debole, bisognoso di protezione.

 

 

Il laboratorio ha prodotto un questionario un po’ serio e un po’ no sul desiderio (del) maschile distribuito durante la tre giorni, durante le iniziative di Antagonismogay e in altri spazi della città. Ha curato anche alcune pagine sul quotidiano Liberazione (uscite dell’1-8-15-22-29 agosto, disponibili on line e presto su questo blog).

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