In moltissime parti del mondo – in Sud America, in Polonia, in Spagna – le donne stanno occupando le strade: femministe, trans*, sex workers, soggettività lgbtqi, tutt* insieme con i propri corpi e le proprie rivendicazioni, incrociano le braccia per dire basta ai femminicidi e alla violenza di genere e per affermare la propria autodeterminazione. Il prossimo 26 novembre, in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile contro le donne, si scenderà in piazza a Roma con un grande corteo nazionale al grido di “Non una di meno”: vogliamo esserci come lelle, froce, trans*, puttane e terrone con uno spezzone transfemminista queer aperto a tutt* coloro che fanno della lotta alla violenza eteropatriarcale, all’eterosessualità obbligatoria e al binarismo di genere una priorità.
La violenza maschile contro le donne non deve e non può essere in alcun modo relativizzata. Allo stesso tempo, la nostra esperienza della violenza di genere mette in evidenza i nessi tra violenza maschile, eteronormatività e imposizione del binarismo di sesso-genere.
Come transfemministe queer siamo costantemente in lotta per costruire un mondo libero dalla violenza di genere, la cui enormità è davanti ai nostri occhi ogni giorno con un vero e proprio bollettino di guerra. Ma la violenza non è solo quella rappresentata mediaticamente, non è un elemento disfunzionale rispetto ai presunti normali rapporti tra uomini e donne, non è l’eccezione nel mondo etero-cis-patriarcale, ma è un fenomeno sistemico e strutturale. Al cuore di questa violenza ci sono l’eteronormatività e l’eterosessualità obbligatoria che producono un sistema di generi rigidamente binario, secondo il quale la propria “maschilità” o “femminilità” e i ruoli sociali dipenderebbero dal sesso assegnato alla nascita. In questa cultura, “maschile” e “femminile” sono generi costruiti come opposti, complementari e asimmetrici: tutto ciò che è “femminile” occupa un posto inferiore. Chiunque provi a ribellarsi alla norma che determina quale posto bisogna occupare nel mondo, che sia una donna che sceglie di lasciare il marito violento o un* adolescente che scappa da una famiglia che non le/gli permettere di scegliere liberamente come vivere il genere, la sessualità e i legami affettivi, viene colpit* dalla violenza di questo sistema, viene ricondott* all’ordine e, se continua a ribellarsi, uccis* o suicidat*.
Questa violenza ha una profonda radice patriarcale che cerca continuamente di reimporsi contro l’autonomia delle donne e i percorsi di autodeterminazione di tutte le soggettività che resistono all’eteronormatività e si ribellano al binarismo di genere: perché la matrice della violenza che colpisce le donne – cis, trans*, etero, lesbiche, queer, bi – è la stessa che produce la violenza contro tutte le soggettività che trasgrediscono la norma etero e cis, che si rifiutano di riprodurre la maschilità egemonica o di identificarsi come donne nonostante l’assegnazione alla nascita. Anche in questo senso, diciamo che la violenza di genere è violenza maschile: perché è prodotta dal funzionamento coerente della maschilità egemonica, che si costruisce come naturale e spontanea attraverso la delegittimazione e la repressione di ogni altra forma di mascolinità non normativa, non etero, femminile, lesbica, gay, trans*.
Non si tratta quindi di aggiungere altre soggettività alla lista delle vittime, ma di affermare che la violenza di genere è prodotta dalla violenza DEL genere, dall’imposizione di due sessi-generi normativi a sostegno dell’eterosessualità obbligatoria, all’interno di una cornice familista e riproduttiva. Questa violenza trova terreno fertile nella centralità sociale attribuita alla famiglia nucleare e alla coppia – intesa come unico luogo legittimo di realizzazione emotiva e di espressione dell’amore e al contempo come spazio eminentemente “privato” (“tra moglie e marito non mettere il dito!”)- e nell’immaginario dell’amore romantico: un immaginario che si nutre di senso del possesso, gelosia, esclusività, annullamento di sé e fusione simbiotica, isolamento nella coppia, non solo produce linfa per la violenza ma finisce anche per legittimarla.
In questo contesto, alla maschilità egemonica fa da contrappunto una femminilità normativa, a cui tutt* coloro che sono stat* assegnat* donne alla nascita sono chiamate ad aderire, prestandosi più o meno gratuitamente al lavoro di cura, affettivo e materiale e di riproduzione e naturalmente all’eterosessualità e alla maternità obbligatorie. Proprio a quest’obbligo ha tentato di ricondurci recentemente il fertility day, così come ci provano continuamente gli attacchi alla libertà di scelta (non) riproduttiva messi in atto dai cosiddetti obiettori di coscienza negli ospedali pubblici, che svuotando di fatto la legge 194 nel nome di un modello e un ruolo femminile destinato alla maternità, mettono a rischio non solo la libertà ma anche la vita stessa delle donne.
Non ci stancheremo mai di ricordare, inoltre, che la violenza del genere, agisce indipendentemente dalla provenienza o dalla cosiddetta “cultura” di chi la compie. Rispediamo quindi al mittente ogni lettura femonazionalista e omonazionalista della violenza contro le donne, che produce degli “altri” razzializzati (migranti, musulmani o terroni che siano), che proietta le proprie strutture eteropartiarcali su altre culture provenienti dal Sud, non solo in senso geografico, rappresentandole come meno “civili” e intrinsecamente violente, tradizionali o arretrate. Le narrazioni razziste della violenza strumentalizzano le nostre lotte per occultare il fatto che la violenza non è esterna e lontana, ma un elemento che struttura tutta la società e solidifica la comunità nazionale.
Contro la violenza del genere e di genere, contro la riproduzione della maschilità egemonica e la complicità con essa, come invito a ribellarsi anche alla femminilità normativa, vogliamo rilanciare la prospettiva dello sciopero dai/dei generi, come pratica di lotta quotidiana, di sottrazione dalle performance binarie dei ruoli di genere socialmente imposti.
Alla centralità sociale della relazione monogamica e all’immaginario romantico ci ribelliamo continuando a costruire e sperimentare molteplici forme di intimità, reti di affetti e di cura non centrate sulla coppia, perché gli affetti e le relazioni sono sempre un fatto politico, non solo quando diventano violente! Se è vero che la violenza di genere si riproduce anche dentro le relazioni non etero e queer, nella misura in cui abbiamo introiettato i codici egemonici e binari della coppia ruolizzata, nei quali siamo stat* cresciut*, risulta ancora più importante – contro ogni forma di etero e omonormatività – riaffermare il desiderio, la pratica e l’importanza politica delle altre intimità e delle forme di relazione e affetto alternative.
Crediamo che non sia possibile vincere la battaglia contro la violenza eteropatriarcale senza tessere fili di connessione tra di noi, senza leggere le intersezioni che ci sono tra l’essere donna, frocia, lesbica, trans*, queer, intersex, migrante, sex worker, terrona in una società maschile e maschilista, eterosessista e violenta, che cerca con ogni mezzo di incasellarci e ricondurci tutt* all’ordine, nelle case, sul lavoro, a scuola, per strada, nelle relazioni, nelle istituzioni e nei servizi pubblici.
Per questo, abbiamo deciso di costruire uno spezzone transfemminista queer alla manifestazione del 26 novembre, per creare lo spazio e il tempo per incontrarci, riconoscerci e posizionarci le une a fianco de* altr* nella lotta contro la violenza di genere. Perché chi ci vuole divise per disciplinarci ci troverà tutt* insieme a urlare furiose nelle strade e nelle piazze: NiUneMenos!
Per aderire, commentare, costruire insieme lo spezzone transfemministaqueer come singol* o come gruppo, collettivo, branco, s/banda, scrivi a transfemminista@canaglie.org
NEW!!! corale 26n2016