Alcuni Pride, ormai, sono feste religiose, che si ripetono regolarmente con la stessa liturgia, per il gusto di stare insieme, ma senza ricordarne neanche le origini; vetrine per grandi e piccoli marchi, carrozzoni depoliticizzati di vecchie associazioni e nuovi avventori. Ma mai avremmo immaginato che proprio nella giornata del Pride dovessimo sopportare le aggressioni e le violenze di chi si attacca ai nostri percorsi politici e poi vuole cancellarci prima come frocie e poi come compagnu.
Come froce, lesbiche, trans* terrone e diasporiche abbiamo scelto di sfilare a Bari, una città dove il Pride non è un rito e la visibilità frocia è ancora una sfida, resa più dura dalle strumentalizzazioni dell’amministrazione comunale e dall’associazionismo mainstream che fanno del decoro e della rispettabilità una loro bandiera. Abbiamo significato politicamente il nostro orizzonte terrone, non come luogo dell’arretratezza, ma come luogo di resistenza al desiderio di normalità della comunità LGBT, al razzismo al decoro, ma anche a nuovi ideali normativi queer. Ma c’è uno specifico che riguarda una città che non è abituata ai pride, rendendola per noi terrone un una piazza significativa da attraversare con le nostre parole e le nostre lotte.
Già durante il corteo abbiamo subito cori che non ci appartengono, slogan che ci offendono, episodi di machismo di cui avremmo dovuto ridiscutere, episodi che abbiamo vissuto come tentativi di invisibilizzazione da parte di chi scende in piazza con noi, ma non ci riconosce come soggetto politico e non comprende che il Pride è uno dei momenti della nostra lotta. Il nostro spezzone non era la somma di percosi politici diversi, ma era espressione della nostra intersezionalità: contro la mercificazione dei pride, l’assimilazione nel capitalismo, contro il razzismo e la normatività della comunità mainstream, contro i confini ed il decoro. Questa è la pratica del transfemminismo queer e non riconoscerlo è solo l’inizio del disconoscimento e delle aggressioni che abbiamo subito; e lo condividiamo senza alcun desiderio vittimista, ma proprio perchè siamo soggetti politici autonomi e resistenti.
È stato quanto è accaduto alla festa la sera stessa a riempirci di rabbia ed obbligarci a un’urgente presa di parola pubblica. Il BPM -Bari Pride Movement, rete cittadina eterogena, composta da soggettività lesbiche e froce e da singolarità e collettivi anticapitalisti, antifascisti, antiproibizionisti- ha rinunciato ad una propria festa, un momento politico di socialità alternativa (che spesso serve anche a rientrare con i costi delle spese affrontate). Ha dovuto rinunciare a malincuore non riconoscendo in città uno spazio sociale, pubblico, gestibile, ma sopratttuto safe per chi vuole sperimentarsi in altre socialità fuori dalla norma, dal machismo e dal mercato. Appena giuntu, prima ancora che potessimo capire a che tipo di evento fossimo, se ci piacesse, se volessimo cambiare qualcosa, ci è stato tolto il tempo, lo spazio e la parola e abbiamo cominciato a subire le prime aggressioni. In quella giornata e in tutti i mesi che l’hanno preceduta ci abbiamo messo la faccia, e proprio per questo siamo subito statu identificatu come i nemici: noi le frocie, noi le femministe, noi, lu compagnu.
Queste aggressioni sono state agite da uomini e donne, persone che abbiamo conosciuto in uno spazio sociale della città e riconoscibili soprattutto come antifasciste. E anche su questo sarebbe opportuno aprire una riflessione.
Il livello dell’aggressione è stato immediatamente altissimo: insulti, minacce, violenze fisiche gravissime, ai danni anche del dj. Mentre ancora cercavamo di lasciare immediatamente un luogo che metteva in pericolo noi e tutte le frocie venute ad una festa frocia nella giornata della lotta frocia, mentre cercavamo di ritirarci senza lasciare nussunu dietro, la struttura militante/militare accorreva a sostegno dei e delle aggressori, per metterci più pressione, farci sentire meno sicuru e festeggiare finalmente la nostra cacciata. Non stiamo qui a recuperare i dettagli di una sera che sempre più assomiglia ad un incubo, ma c’è un momento in particolare che ci preme denunciare ed analizzare per la sua gravità.
Qualcunu di noi era ancora dentro a controllare che nessunu fosse rimastu in pericolo e a scortare una compagna, quando è arrivata la polizia. A quel punto abbiamo cercato di raggiungere l’uscita per non trovarci a doverci difendere in un luogo che già si era mostrato pericoloso per noi. Giuntu al cancello non ci è stato permesso di guadagnare l’uscita: «Avete voluto la festa, adesso vi fate identificare con noi!» e ci è stato sbattuto in faccia. Siamo statu strattonatu, spintonatu, insultato, ci è stata ripetutamente messa la mano davanti alla bocca. La situazione era terrorizzante, le persone in quello spazio minacciavano la nostra incolumità a tal punto che appena si è aperta una breccia ci siamo lanciatu fuori, senza alcuna speranza che fuori potesse essere più sicuro per noi. Chi come noi ha sedimmentato nella propria storia di militante, o direttamente sul proprio corpo, la violenza della polizia, può comprendere bene quanto avessimo temuto per la nostra inclumità all’interno. Intanto fuori rimbombavano i colpi dei manganelli su quello stesso cancello di ferro.
Questa immagine così violenta, purtroppo, per noi non è stata solo una metafora, eppure rappresenta molto bene la violenza con cui i compagni e le compagne con tutti i privilegi etero, cis, ci tappano la bocca, ci rubano le parole, mentre noi davanti affrontiamo la violenza dello Stato, della società, della medicina, del capitalismo… I nostri corpi fuori norma, le oppressioni specifiche che subiamo, spesso multiple e intrecciate, ci rendono vulnerabili, per questo costruiamo spazi sicuri e coraggiosi; allo stesso tempo ci rendono resistenti, perchè lottiamo ogni giorno contro il sessismo nella società, ma anche nei movimenti politici che attraversiamo. E questo dobbiamo metterlo in chiaro per ribadire sin da subito che il paternalismo è l’altro volto del machismo!
I nostri posizionamenti, il nostro essere compagne e compagnu froce, lesbiche, queer, non binari, non è stato solo zittito ma totalmente invisibilizzato. Abbiamo attraversato le strade contro il decoro, rivendicandoci di fare schifo, di essere oscenu e indecorose, ma la nostra insubordinazione verso il decoro, l’assimilazione e lo sfruttamento, non ha mai previsto nè mai prevederà di sacrificare la lotta al sessismo, all’ omotransfobia, alle pratiche machiste, anche del movimento! Siamo scesu in piazza ricordando a gran voce che quello che ci opprime non è solo la retorica antidegrado che mette ancora più ai margini chi già lo è, ma anche il sistema patriarcale e eteronormato che si manifesta in ogni episodio di violenza di genere e del sistema dei generi!
Siamo state messe da parte come una reliquia il giorno dopo la sua ricorrenza; il culmine dell’assurdo era che queste minacce erano pronunciate utilizzando tutte le parole che con una faticosissima pedagogia avevamo portato in questo percorso cittadino: sessismo, omofobia, anticapitalismo queer e pink washing. Non staremo qui a mostrare le spillette militanza collezionate come singolu compagnu e come movimento transfemminsita queer; la pratica machista di “a-chi-ce-l’-ha-più-lungo” ci fa schifo, non dobbiamo giustificare la nostra presenza, dimostrare la nostra militanza, legittimare la nostra storia a chi, credendosi Compagno (maiuscolo), non riconosce nessun altru soggetto politico, nessuna altra lotta, nessuna altra pratica. La nostra radicalità l’avevamo appena portata in piazza poche ore prima.
Non solo metaforicamente hanno provato a tapparci la bocca,ma anche se ci metteremo del tempo ad elaborare questo trauma, sin da subito non staremo zittu; continuiamo ad elaborare quanto è accaduto con le compagne di Bari, a riflettere sulle pratiche, a cospirare insieme a chi su quel territorio continuerà a lottare e a tessere reti di resistenza e autonomia transfemministaqueer. Già il nostro striscione parlava chiaro “Veniteci dietro”; invece hanno voluto anche lo striscione, mettersi davanti, ma senza stapparsi il buco del culo e buttare fuori tutta la merda machista di cui hanno piena la pancia. Perchè noi non ascriviamo ciò che è accaduto al comportamento dei singoli e delle singole, reputiamo che sia una questione di pratiche che trovano tetto e nutrimento in molti spazi occupati che credono di essere liberati, senza riconoscere i propri privilegi,senza mettere in discussione delle pratiche che continuano a guardare alla maschilità egemonica come l’unico modello per contrastare quello attuale. Il tempo della pedagogia è finito, la merda sessista non deve avere più agibilità politica nel movimento.