Penetrabile è meglio! Articolo per liberazione.

 

Penetrabile è meglio!

Alessandro Zijno – Laboratorio Smaschieramenti

Liberazione, 22 agosto 2008

 

 

Sostenere che non esistano discriminazioni è il modo più banale di manifestare il proprio razzismo. Ogni serena analisi della nostra società dovrebbe sempre tenere presente la banale constatazione che questo non è il paese delle pari opportunità realizzate. Eppure l’atteggiamento di negare che esistano discriminazioni si sta diffondendo in maniera virale nell’immaginario collettivo. Da sempre più parti si sente il bisogno di manifestare l’idea che tante conquiste sono state ormai realizzate, che in fondo è meglio qui che da tante altre parti (come se la considerazione che c’è qualcuno che sta peggio di noi possa essere confortante). Questo atteggiamento può sorprendere per i motivi più diversi, e sicuramente dovrebbe sorprendere per il fatto di essere trasversale a tutti i settori del tessuto politico e sociale. Ma quello che spesso si evita di notare è che queste posizioni sono di fatto funzionali a, e in quanto tali prodotte da, un molesto clima di normalizzazione. Un clima che si sta diffondendo, un clima che preferisce risolvere, a suo unico beneficio, le tensioni sociali negando o mascherando le differenze e accettando solo chi non si fa notare, chi scompare e si integra in uno scenario normato fin nei minimi particolari: non ti accetto in quanto omosessuale, gay, lesbica o quanto altro, ma se non ti fai notare, se accetti l’ordine costituito, allora posso fare finta di non vederti. Si pensi al clima in cui è maturato l’attacco alle trans del Prenestino a maggio, dove alcuni cittadini del quartiere, alla presenza delle forza dell’ordine, hanno messo in atto una vera e propria "caccia" a un gruppo di trans al grido di "froci di merda" e "ve la faremo vedere". Ma in questo processo di normalizzazione non è solo la comunità LGT nel suo complesso ad essere coinvolta, ma la società stessa nella sua generalità, dalle prostitute ai migranti, dai diversabili a tutte le categorie ritenute non conformi.

 

E’ di questi giorni la notizia di un ragazzo, presunto affiliato mafioso, stuprato in carcere perché ritenuto omosessuale. Il gr2 passa la notizia con il titolo: "Picciotto stuprato in carcere in quanto ritenuto omosessuale perché scrive poesie d’amore". E, dopo aver esplicitato che il ragazzo non è affatto omosessuale, ma soltanto una persona (come il suo avvocato tiene a sottolineare) dai modi leggermente "femminili", il servizio si concentra sul mostrare quanto sia sciocco pensare che un maschio possa essere omosessuale solo per il fatto che scriva poesie d’amore. Ed ecco che l’effetto normalizzazione è realizzato, l’omofobia è cancellata a favore dello smascheramento della falsa connessione poesia/omosessualità. Così chi ascolta la notizia non è portato ad inorridire per l’aggravante omofobica della violenza, non si infastidisce perché ancora non c’è una legge che riconosce l’omofobia e la transfobia come aggravanti, ma al contrario si sente tranquillizzato nel fatto di sentirsi normale, perchè ovviamente non crede, come quei criminali che hanno perpetrato la violenza, che chi scriva poesie d’amore debba essere omosessuale.

 

La tentazione ovviamente, da parte di molti, è quella di considerarsi immuni a questo tipo di messaggi, di pensare di avere ormai sviluppato gli anticorpi per questo tipo di manipolazione. Eppure siamo proprio convinti che sia così? Si prenda per esempio la pressante questione della violenza contro le donne. Questa è stata trattata soprattutto come questione sicurezza e in quanto tale immediatamente legata al fenomeno dell’immigrazione clandestina. Ma, come ribadito con fermezza dalla manifestazione delle femministe e lesbiche del 24 novembre 2007 a Roma e come denunciato settimanalmente dalle colonne della stessa Liberazione, la questione della violenza contro le donne ha poco a che fare con la questione immigrazione, quanto piuttosto ha a che fare con il concetto di famiglia, o meglio con la cultura maschile che questo concetto ha costruito per suo uso e consumo, determinandone i rapporti di forza al proprio interno. Concetto di famiglia unicamente fondato su una presunta dualità sessuale normata secondo uno schema oppositivo in cui un sesso è dominante rispetto all’altro. Concetto di famiglia che non intende riconoscere, se non come devianza, alcun altro tipo di identità o di relazione, in quanto queste ne minerebbero proprio quei rapporti di forza che permettono di perpetrare lo schematismo. Quanti di noi, pur riconoscendo i presupposti e opponendosi formalmente alla normalizzazione, riescono o almeno soltanto tentano di riportare questo impegno all’interno della propria quotidianità, nel proprio piccolo mondo personale e anche all’interno delle proprie pratiche politiche? Quanti si sono interrogati su come il rapporto di forza tra le due identità imposte dalla cultura dominante sia ancora così colpevolmente sbilanciato? O meglio ancora, quanto siamo stati capaci di riportare queste riflessioni all’interno del nostro agire, all’interno dei nostri rapporti relazionali? Insomma, quanto siamo disposti ad ammettere che c’è qualcosa nella cultura maschile che non funziona? Quanti maschi, che pur si considerano di sinistra, progressisti, democratici, quand’anche femministi sono pronti a mettere in discussione la propria cultura maschile e riconoscere la disparità di potere culturale e una strategia di dominio di un genere sugli altri? Quanti sono disposti a considerare, per esempio, il reddito della propria compagna come principale e non semplicemente ausiliario alla gestione familiare? Quanti sarebbero pronti ad essere economicamente dipendenti senza per questo sentire sminuire la propria identità di genere? D’altra parte la prima strategia con cui la cultura dominante perpetua se stessa è proprio quella di non riconoscere altri sessi oltre ai due culturalmente imposti, relegando il pur statisticamente rilevante fenomeno dell’intersessualità a mera patologia o stramberia della natura e in quanto tale medicalizzato, nascosto e chirurgicamente e ormonalmente aggiustato. Quanti tra gli etero e non solo, per esempio, sono disposti a dimostrare, e non a parole, ma nei fatti, nelle pratiche e nel modo di apparire, nell’educazione impartita ai figli per mezzo dell’emulazione che il loro essere maschio rifugge ogni tentativo di virilismo, di ricorso alla legge del più forte, declinata nelle sue diverse forme: da quella brutalmente fisica a quella economica, passando per quella psicologica e per quella verbale?

Ed è proprio questo mancato riconoscimento nei fatti, nella quotidianità politica e privata, di questa disparità, di questa smania normativa e normalizzante che tende ad annullare tutto ciò che è strano, freak, queer (e purtroppo nessun segnale di smentita giunge oggi dalla comunità dei maschi) che spinge a segnalare che quella che è stata chiamata emergenza sicurezza è in realtà un’emergenza virilista, perché la sicurezza dell’individuo non è data e non può essere realizzata attraverso una militarizzazione della società, cosa che di fatto rinforza la cultura virilista stessa (perchè il fine non può giustificare i mezzi, ma sono i mezzi che devono esprimere il fine). Perchè la sicurezza degli individui può essere raggiunta solo attraverso una decostruzione e una messa in condizioni di non nuocere della cultura macista, della cultura del più forte, della cultura della sopraffazione in qualsiasi forma, luogo o momento si manifesti. Perchè non ci può essere sicurezza finché ci sarà in giro una cultura che premia atteggiamenti aggressivi e prepotenti, che connota positivamente l’astuzia e la furberia. Perché non ci può essere sicurezza finchè non si ammette, come sottolinea Adriano Sofri su la Repubblica del 21 giugno, che "… lo stupro delle donne non è solo un’arma delle guerre fra uomini, ma è l’arma simbolicamente decisiva della universale guerra degli uomini contro le donne, e che stupro e assassinio di donne in tempo di pace sono una forma di addestramento militare e di caparra privata sulla guerra generale".

E questa guerra generale è combattuta considerando i corpi delle armi, dove tutte le proprietà penetranti pertengono al corpo maschile, mentre quelle penetrabili al corpo femminile. Ma perché il maschile coincide con l’impenetrabilità? Quale altro vantaggio "adattivo" nasconde questo costrutto culturale se non l’idea stessa di dominio di una classe di individui sulle altre? Il maschile è reso impenetrabile, corpo compatto, chiuso, proteso ariete alla conquista degli altri corpi, mentre il femminile si fa morbido, penetrabile, conquistabile. Ma, esattamente come l’ostracizzazione dell’orgasmo clitorideo è stata strumento di controllo sui corpi delle donne, almeno prima della rivoluzione femminista dei Settanta, allo stesso modo, quanto è più forte la cultura virilista, tanto è più forte il tabù dell’orgasmo anale maschile. Quanti maschi, in questa società, sono disposti ad ammettere pubblicamente che la penetrazione anale maschile può essere piacevole? Quanti sono minimamente disposti anche semplicemente a pensarsi penetrabili senza sentire la propria identità maschile messa a repentaglio? Del resto la nostra società stigmatizza la penetrabilità maschile legandola a doppio nodo con l’omosessualità (altro marchio tipicamente usato come infamia nelle società viriliste), escludendo violentemente due modalità di essere uomini non allineate al modello dominante, perchè d’altronde essere penetrabili non implica essere omosessuali e viceversa. Così la penetrabilità potrebbe, invece, essere uno dei punti di partenza di una riflessione maschile che conduca a riappropriarsi del proprio corpo liberandolo dal controllo imposto dal macismo.

Tutte queste ragioni hanno spinto i partecipanti al Laboratorio Smaschieramenti a mettersi in discussione per cercare di costruire una idea alternativa del maschile che non rifiuti la dipendenza, la penetrabilità e la morbidezza. Perchè questo non è il momento di rinchiudersi nel privato, di nascondersi nelle pieghe delle società, di cedere all’ingannevole, benché allettante, richiamo alla normalizzazione. Questo è, invece, il momento di puntare i piedi, di fare argine, di smarcarsi e di schierarsi di fronte ad un virilismo sempre più prepotente. Questo è il momento di manifestare un nuovo posizionamento e rivendicare la propria peculirità di fronte all’immagine opprimente e totalizzante del maschile, rivendicando con orgoglio il proprio essere stonato all’interno di un coro che vorrebbe tutti riducibili ad un unico modello. Questo è il momento per tutti quei maschi che non si riconoscono nella figura virilista dominante, che non sentono propri i valori della forza, della sopraffazione, dell’aggressività, dell’impenetrabilità, che non credono in un mondo diviso in due, che non credono che tutto debba essere normato e normalizzato di alzare la testa, di farsi vedere, di prendere coscienza e parola, di diventare sempre più visibili, perché se non lo faranno ora, non avranno più la possibilità di vivere la loro vita come se la sentono addosso e non come altri vogliono che la vivano. Pensateci.

 

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