Caro Fallo ti scrivo. Articolo per Liberazione.

 

di Gian Maria Annovi

Liberazione, 29 agosto 08

 

Nel 1966, viene pubblicato a Cuba uno dei capolavori della letteratura del secolo scorso, il romanzo di José Lezama Lima Paradiso. Opera barocca, eruditissima e poetica, le sue quattromila copie non fecero in tempo ad arrivare nelle librerie dell’isola che furono immediatamente sequestrate dalle autorità del governo castrista. La ragione si trova nelle circa trenta pagine, sulle oltre 550 del volume, che costituiscono il capitolo VIII, sufficienti però a etichettare il romanzo come “pornografico e controrivoluzionario”. Al centro di quel capitolo stanno le descrizioni della “verga enorme” e del “dolmen fallico” di due superdotati studenti cubani, alle prese con le prime avventure etero e omosessuali. È interessante che anche un romanzo molto differente, Mafarka il futurista (1910) di Filippo Tommaso Marinetti, sia incappato in un tentativo di censura per motivi molto simili. Il romanzo del padre del Futurismo, ambientato in un trasfigurato Continente nero, narra in maniera concitata e straniante le avventure – eroiche e sessuali – dell’eponimo re africano, che non solo riesce a creare un gigantesco figlio senza ricorrere al coito, ma può anche vantare “un sesso interminabile, lungo undici metri”, nella migliore tradizione rabelaisiana. Se si presta fede alla lettura che ne ha dato Barbara Spackman nel suo Fascist Virilities, dal colonialismo al maschilismo, Mafarka è un concentrato di motivi che anticipano l’ideologia del fascismo, a cui lo scrittore avrebbe poi entusiasticamente aderito. Proprio la “retorica della virilità,” che pare costituire un valore nella Cuba di Castro (i campi di lavoro per omosessuali furono inaugurati nel ’65 al grido di “il lavoro rende uomini”) e nell’Italia pre e post mussoliniana, come ricorda memorabilmente anche l’Eros e Priapo di Carlo Emilio Gadda, sembra però paradossalmente ritorcersi contro due opere che osano presentare al lettore colossali simboli virili. La questione non riguarda solo l’esorcizzazione dello spettro dell’omosessualità, presente sia in Paradiso che nella riproduzione per partonogenesi al centro di Mafarka, ma punta dritto al piacere maschile. Dittature a parte, anche l’Italietta borghese degli anni Sessanta dimostra che intorno all’anatomia maschile si giocano questioni biopoliche e politiche del desiderio. È il caso del sequestro del film Teorema (1968) di Pier Paolo Pasolini, accusato di oscenità per aver mostrato, per la prima volta sugli schermi, un nudo di uomo integrale. Se lo spazio della fantasia, come ha scritto Slavoj Žižek, “funziona come una superficie vuota, una specie di schermo per la proiezione del desiderio,” l’ambito cinematografico risulta più sensibile alla registrazione del proibito, in quanto campo non velato dello sguardo, della visione. Non a caso, la castissima scena incriminata di Teorema non includeva nessuna delle smisurate erezioni che si possono invece incontrare nella scrittura dei romanzi citati in apertura. Per rendere conto delle falloforie letterarie è forse utile un’immagine evocata da Lacan nel Seminario XI, quella di un tatuaggio disegnato sul pene che assume, solo con l’erezione, la sua forma pienamente sviluppata. Il segno, la scrittura, si è sviluppata sin dalle origini nell’erezione, nel dominio di un logos fallico, contro il quale sono nati tutti i brillanti tentativi, soprattutto in ambito lesbico e femminista, di destrutturazione creativa del fallologocentrismo (si pensi alle esperienze straordinarie di Monique Wittig e Hélène Cixous). Ma per quale ragione, viene da chiedersi, proprio la rappresentazione erotica del sesso virile è spesso incappata – per dirla con Bataille – nell’interdizione? Forse perché anche il modello eterosessuale maschile è costruito attraverso proibizioni, prima tra tutte la proibizione di provare piacere attraverso la visione del pene eretto, qualcosa che nella logica psichica del potere può coincidere solo con la pulsione omosessuale. Il realtà, il desiderio maschile, trova il proprio piacere non solo, o non tanto, nel corpo femminile, che la costruzione industriale dell’immaginario pornografico etero ha così capillarmente codificato, ma anche nell’immagine del proprio sesso. Corrobora questa idea anche un volume recente, una raccolta di sette racconti erotici curata da Gianni Biondillo per i tipi di Guanda, Pene d’amore. L’idea di quest’antologia è di “restituire dignità all’immaginario erotico maschile”, rivendicando anche per il “sesso maschio” (sic) il medesimo spazio che secondo il curatore avrebbe assunto la letteratura erotica femminile, dove l’uomo – al pari che nell’iconografia pornografica – “è acefalo”, non esposto “nelle sue debolezze”, nella sua psicologia. I racconti presentati sono a dire il vero piuttosto deludenti, ma questo Pene d’amore qualcosa rivela e proprio a partire dal titolo che, nel dichiarato giochetto tra singolare e plurale, ci mostra come non sia un desiderio frustrato il tema della raccolta ma – più prosaicamente – l’organo maschile e la sua celebrazione. Anzi, per citare il bel metaracconto di Tiziano Scarpa, forse l’unico gioiellino (di famiglia) della raccolta, il protagonista indiscusso di questi racconti è un cardiopene. Un cazzo con attaccato un cuore, un essere autonomo, come già avveniva nel meno riuscito dei romanzi di Moravia, Io e lui, che attraverso il filtro di un’ironia tutta borghese, raccontava i dialoghi tra un uomo e il proprio esuberante attributo. Cruda com’è, credo che per questa via si arrivi per grosse approssimazioni ad uno almeno degli aspetti del desiderio maschile, quello di un’estetica del piacere fallico. Non è allora irrilevante che proprio la protagonista femminile del primo e fortunato romanzo di Scarpa, Gli occhi sulla graticola (1996), si guadagni da vivere disegnando le parti sessuali censurate nei fumetti erotici giapponesi, in un vero e proprio recupero certosino dell’interdetto. E ancor meno irrilevanti sono le preoccupazioni di Bruno, uno dei protagonisti di Le particelle elementari (1998) di Houellebecq, masturbatore cronico ossessionato dalle sue poco soddisfacenti dimensioni anatomiche, al pari dello straordinario personaggio creato nel suo ciclo di body-bildungsroman da Walter Siti, forse lo scrittore che sta maggiormente destrutturando l’immaginario maschile e omosessuale in Italia. Se esistono modelli di desiderio maschile, questi desideri passano anche attraverso un immaginario, un’estetica fallica rinvenibile ampiamente non solo nella cyber sfera e nell’industria pornografica, ma anche in letteratura. Basti pensare al famoso Appunto 55, Il pratone della Casilina, contenuto nel romanzo incompiuto di Pasolini, Petrolio (1992). In questo appunto, il protagonista della vicenda, trasformato in donna, si fa possedere da venti ragazzi, di ognuno dei quali descrive con precisione minuziosa e stupita l’organo sessuale, quasi si trattasse di un miracolo, un ricongiungimento cosmico. Non è un caso che queste epifanie falliche avvengano nel momento in cui il protagonista, che ha mantenuto la sua identità maschile, si ritrova in un corpo che manca proprio dell’oggetto del suo desiderio. Si potrebbe a questo punto tentare di avventurarsi nella distinzione freudiano-lacaniana tra pene e fallo, dove quest’ultimo è l’estremo oggetto del desiderio che abbiamo perso e che cerchiamo continuamente senza mai averlo veramente posseduto. Il fallo come significante della mancanza, insomma, indice di un desiderio che non può essere soddisfatto. Sono distinzioni utili, certo, ma come ha notato giustamente Judith Butler, il fallo non sarebbe nulla senza il pene, e la sua identità comprende quest’ultimo, nonostante la parte anatomica non sia mai commensurabile al fallo stesso. Se la “destituzione del simbolico egemonico della differenza sessuale” e la “liberazione critica di schemi immaginari alternativi” sono anche l’obiettivo di chi si propone di indagare il “continente nero” del desiderio maschile, per ribaltare l’espressione di Freud a proposito dell’universo femminile, occorre forse fare un passo indietro e – senza mai abbandonare il piano della critica e della denuncia – considerare il pene non solo come uno strumento di potere fallocratico e di violenza ma anche come un organo di desiderio e di piacere, piacere che appartiene prima di tutto – ma non solo – alle più intime fantasie dell’uomo. È infatti la qualità sovversiva del piacere, l’espressione libera del proprio desiderio, ciò che non può tollerare il potere che pretende di regolamentare i nostri corpi e le nostre vite. È qualcosa che avviene anche attraverso la censura del corpo maschile e la costruzione capillare di un’immagine dell’uomo: quella di una virilità indifferente, rapace, violenta, “il celodurismo” acriticamente assunto da molti, contro il quale non si può non abbassare la guardia. Non per nulla, è proprio questo tipo di virilità a risultare “indifferente e perfino sconosciuta” al protagonista iper-priapico delle trenta pagine “pornografiche e controrivoluzionarie” del Paradiso di Lezama Lima: un canto non di violenza ma di piacere.

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