QUI C’È GENDER CHE LAVORA – Stati Genderali in sciopero

– Fr0cə in sciopero
Colpo di scena: le persone Lgbtqia+ lavorano. Sembra una banalità, ma continueremo a dirla finché non smetterà di stupire. Non facciamo di mestiere il nostro genere, il nostro orientamento sessuale o la nostra condizione di disabilità o di neurodivergenza: siamo persone che lavorano per sopravvivere. E aderiamo convintamente allo sciopero generale del 2 dicembre e alla manifestazione del 3 dicembre: contro il caro vita e contro la guerra che gli fa da scusante mentre si gioca sulla pelle dei popoli ucraino e russo. Contro il governo Meloni, naturalmente, e le sue politiche padronali, antifemministe, strutturalmente razziste e opposte ai diritti riproduttivi, politici e lavorativi che ci spettano. Per il salario minimo, proprio ieri affossato in parlamento dalle stesse forze politiche che si erano dette favorevoli a una sua blanda introduzione, e che oggi si giustificano dicendo che comprometterebbe il ritorno alla contrattazione nazionale.

Sono questioni che ci riguardano tuttə indistintamente: ogni diritto negato è un ricatto in più alla classe lavoratrice; ogni discriminazione dà più spazio a padroni e politici per dividere la classe lavoratrice e operare contro i nostri interessi. Per questo aderiamo allo sciopero generale aggiungendo alla piattaforma almeno le nostre richieste di minima, a partire dal chiedere una nuova e seria raccolta dati sulle condizioni di lavoro delle persone Lgbtqia+, un rinnovato sforzo di formazione nei luoghi di lavoro estendendo le troppe poche ore finora previste, e l’applicazione delle leggi che già esistono. Le leggi antidiscriminazione sono solo due, una del 2003 e una del 2010, e in entrambe è assente la dicitura “identità di genere” che consente di tutelare le persone trans* discriminate sul lavoro, che in assenza di questo termine si ritrovano spesso a dover fare causa come persone omosessuali discriminate. Ce lo chiedeva l’Europa, e i nostri politici hanno fatto male pure questo compitino. Ne chiediamo almeno la reale applicazione, per dire basta al sotto-inquadramento, ai licenziamenti discriminatori, e mettere la parola fine alle tristi vicende delle persone che a causa della discriminazione sono, di fatto, “suicidate dal lavoro”. Così come la chiediamo della legislazione anti-mobbing e l’inserimento delle discriminazioni che subiamo come fattori di rischio nelle DVR e nelle Valutazioni dello stress correlato.
Le famose unioni civili del 2016, con l’infame dicitura “formazione sociale specifica” al posto di “famiglia”, mettono una zeppa che ostacola il riconoscimento immediato sul luogo di lavoro dei diritti connessi al matrimonio, nonostante siano esplicitamente previsti dalla legge. In più chiediamo per lo meno l’attuazione delle carriere alias, sia nelle relazioni interne sia nelle relazioni con l’esterno dei luoghi di lavoro, così da sostenere sul luogo di lavoro l’autodeterminazione persone trans* in attesa di rettifica dei documenti – o che non vogliono rettificarli per le complicazioni dell’attuale legge che prevede solo lunghe e burocratiche transizioni medicalizzate. Vogliamo l’estensione della legge 104 anche alle forme di disabilità e di neurodivergenza non esplicitamente riconosciute dalla legge.
Si vede già da qui che la questione non può essere solo vertenziale, ma politica. Abbiamo bisogno di una legge sull’autodeterminazione di genere che superi l’attuale legge 164, così da permettere rettifiche del genere all’anagrafe più immediate possibile, mandando in pensione le carriere alias. Abbiamo bisogno di una riscrittura della legge 104, basata su criteri di “funzionamento” sul lavoro e non di benessere psicofisico sul lavoro. Abbiamo bisogno di una riforma radicale del diritto di famiglia che includa prima di tutto l’equiparazione del matrimonio, perché non sia più un’esclusivo diritto delle persone eterosessuali, e delle unioni civili, perché possano trasformarsi in uno strumento utile anche alle coppie non formate da persone dello stesso genere.
Una riforma che dia pieno riconoscimento ai diritti connessi alla filiazione, ma che sia in grado anche di restituire la ricchezza e la diversità delle nostre relazioni multiple e felici, comunità affettive di convivenza anche non sentimentale, o di semplice condivisione economica – per mettere in comune risorse contro una vita che ci costa sempre più cara. Vogliamo la decriminalizzazione del lavoro sessuale, perché non c’è contrasto alla tratta, in qualunque lavoro, che non passi prima di tutto dal riconoscere le forme di lavoro che schiavizzano e mettono a frutto, e che alcunə esercitano nelle libertà limitate consentite dal capitalismo.

Vogliamo, infine, una battaglia che sembra simbolica, ma che rappresenta l’arretramento cui la classe lavoratrice è stata costretta negli scorsi anni: la reintroduzione e il potenziamento dell’articolo 18. Riguarda noi e le nostre discriminazioni, riguarda altro – le altre battaglie che fanno la meravigliosa ricchezza della lotta di classe. Riguarda tutto: questo sistema economico e politico che vogliamo rivoltare. Prendeteci sul serio, siamo gender che lavora.

c'è gender che lavora

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